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CITTADINANZA IN SOSPENSIONE: analisi critico-ermeneutica degli emendamenti legislativi e della trasmutazione dello Ius Sanguinis da diritto dichiarativo a concessione amministrativa

di Rui Aurélio De Lacerda Badaro[1] , professore presso il PPGD della PUC Minas, segretario generale della Commissione per il Commercio Estero dell’OAB/SP

INTRODUZIONE

Come siamo arrivati a questo punto? Com’è possibile che, nel cuore di uno Stato fondato sul faticoso equilibrio tra legalità, dignità e storia, emerga una proposta legislativa che si rivolge contro la stessa tradizione giuridica che gli ha dato la sua identità?

Non si tratta solo di una domanda retorica, ma di un’indagine costituzionale nella sua forma più acuta. Come direbbe Gustavo ZAGREBELSKY, “il diritto non si fa solo con le norme, ma con il senso”[2] . E qui, ciò che si perde è proprio il senso: di appartenenza, di storia, di continuità. Il decreto legge 36/2025 e i suoi emendamenti non sono strumenti di regolamentazione amministrativa. Sono atti simbolici di annullamento dell’identità.

Si tratta di un classico esempio di quello che io chiamo (alla Lenio Streck![3] ) decisionismo legislativo autoreferenziale: un atto normativo che nega il proprio fondamento per rispondere alle esigenze dell’immediato presente. Un volontarismo giuridico senza alcun impegno nei confronti della tradizione costituzionale, senza ascoltare i patti fondanti della Repubblica.

Il disegno di legge di conversione del decreto legge 36/2025, con le sue decine di emendamenti, non è solo una modifica legislativa. È un evento ermeneutico di rottura. Un “parricidio normativo” contro lo ius sanguinis, la forma storica della cittadinanza italiana. Uno Stato che rompe con i legami storici che lo hanno generato è uno Stato che nega se stesso.

Come insegnava Piero CALAMANDREI, “la Costituzione non è un pezzo di carta, ma una promessa giuridica”[4] . Una promessa che si rinnova a ogni generazione di italiani, che siano a Roma o a Rosario, a Milano o a Mendoza. Quando il legislatore rompe questa promessa, rompe anche la continuità della normatività stessa della Costituzione.

Come avvertiva Giuseppe de VERGOTTINI, il principio di cittadinanza è l’elemento unificante dello Stato costituzionale”[5] , perché esprime il legame tra la persona e l’ordinamento giuridico. Togliere alla cittadinanza iure sanguinis il suo carattere dichiarativo significa disintegrare questa unità.

E non si tratta solo di cittadinanza. Si tratta dell’intelligibilità stessa del diritto, come direbbe Norberto BOBBIO[6] . Perché, come ha insegnato Sergio COTTA, il diritto senza un fondamento esistenziale è solo gestione normativa[7] . E quando la gestione sostituisce la storia, non resta che l’amministrazione dell’oblio.

In questo contesto, gli emendamenti non possono essere analizzati come dispositivi isolati. Devono essere interpretati come sintomi di un cambiamento paradigmatico: dalla cittadinanza come riconoscimento di identità alla cittadinanza come prodotto amministrativo. Dalla normatività come promessa alla legalità come espediente.

La questione, quindi, è più profonda: si tratta di capire se lo Stato italiano riconosce ancora la propria storia. Se considera ancora i suoi emigranti e i loro discendenti come parte del suo popolo. O se si rassegna alla logica dell’esclusione selettiva, travestita da efficienza amministrativa e difesa dell’”interesse nazionale”.

Come ha detto Francesco CARNELUTTI, “il diritto non può essere il luogo in cui la vita si piega alla procedura”[8] . Ma è proprio quello che annuncia questo progetto legislativo : la sottomissione della cittadinanza alla logica del merito, del filtro, della diffidenza. Un nuovo tipo di confine, non geografico, ma simbolico e normativo.

Quindi, se la cittadinanza italiana diventerà dipendente da criteri di performance e filtri amministrativi, non saremo di fronte a un progresso normativo, ma a una regressione istituzionale verso l’ombra del passato.

Quando il diritto si distacca dalla storia, diventa uno strumento di potere piuttosto che di giustizia

Ed è a questo che si oppone questo breve studio.

I. LA COSTITUZIONE ITALIANA COME LIMITE NORMATIVO

La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 non è solo un insieme di norme: è il testo fondante di uno Stato nato dalla resistenza al totalitarismo e dall’affermazione dei diritti dell’individuo. Come ricorda Lorenza CARLASSARE, “la Costituzione è un progetto, un impegno etico e politico, un orizzonte di civiltà”[9] . Non c’è da stupirsi, quindi, che le sue clausole formino un sistema che protegge la cittadinanza come un diritto fondamentale, indisponibile alla discrezionalità legislativa.

L’articolo 3 sancisce l’uguaglianza nella sua dimensione sia formale che materiale. Ciò implica che il legislatore non può creare distinzioni irragionevoli tra i cittadini italiani per sangue, in base alla loro posizione geografica, alla lingua o al livello di istruzione. Gli emendamenti che subordinano il riconoscimento della cittadinanza alla conoscenza della lingua italiana (come l’emendamento 1.48) o alla residenza in Italia per un certo periodo (emendamenti 1.6, 1.24 e 1.67) sono materialmente discriminatori. Operano una gerarchizzazione dell’italianità, in violazione frontale del nocciolo duro della Costituzione.

L’articolo 22 stabilisce che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici. Ma come ha giustamente osservato Giuseppe de VERGOTTINI[10] , questo precetto ha una forza simbolica più ampia: protegge la cittadinanza dall’arbitrio. Toglierla per inerzia, presunta alienazione culturale o mancata partecipazione ai riti amministrativi (si vedano gli emendamenti 1.61 e 1.54) rappresenta una forma velata di sanzione dell’identità, ed è quindi inammissibile.

L’articolo 24 garantisce a tutti l’accesso alla giustizia. Gli emendamenti che prevedono moratorie amministrative e giudiziarie (1.4 e 1.7) non solo violano questo diritto, ma costituiscono un vero e proprio stato di eccezione ermeneutica. Sospendono l’accesso alla giustizia con il pretesto della “riorganizzazione”, invertendo la logica della tutela dei diritti: invece di facilitare l’esercizio del diritto, lo bloccano preventivamente.

L’articolo 117, infine, richiede che la legislazione nazionale sia conforme agli obblighi internazionali e al diritto dell’UE. In questo caso non entra in gioco solo il diritto dell’Unione europea, ma anche trattati come la Convenzione europea sulla nazionalità (1997), che vieta la discriminazione nel riconoscimento della nazionalità d’origine. Gli emendamenti che introducono quote (1.14), test di merito culturale (1.55) e sistemi a punti (1.63) si scontrano con questo quadro internazionale, spostando la cittadinanza dal campo del diritto a quello della graziosa concessione.

Lo sfondo di queste misure – anche se mascherate da razionalità amministrativa – è l’indebolimento del modello di cittadinanza come diritto originario. Gli emendamenti partono dalla falsa premessa che lo ius sanguinis sia un’anomalia da contenere, mentre in realtà è l’espressione storica di un legame già costituito. Trattare questo diritto come un privilegio revocabile apre la porta a una decostituzionalizzazione della cittadinanza.

E, riassumendo il pensiero di ZAGREBELSKY, “la Costituzione non è un testo da interpretare secondo la volontà del potere, ma un limite contro l’arbitrio del potere”[11] . Quando i legislatori lo ignorano, diventano i loro stessi avversari.

II. CONTINUITÀ NORMATIVA E IRREVOCABILITÀ DELLO STATUS CIVITATIS

Non esiste una legge al di fuori del tempo. Nessuna norma esiste al di fuori del suo tessuto temporale. Né esiste cittadinanza senza storicità. Al centro della teoria del diritto come integrità – per usare l’espressione di Ronald DWORKIN[12] , qui reinterpretata attraverso la lente europea di – il riconoscimento di uno status giuridico non può essere dissociato dal tempo normativo che lo costituisce. Per questo motivo, ogni tentativo di riposizionare ex post la norma applicabile allo status civitatis equivale giuridicamente a stabilire un regime di eccezione sotto la veste della regolarità amministrativa.

Nell’ordinamento giuridico italiano la cittadinanza è sempre stata strutturata sulla base di un principio assiale: lex temporis regit actum. Dal Codice Civile del 1865, passando per la legge 555/1912 e culminando nell’attuale legge 91/1992, il legislatore ha sancito in modo inequivocabile la prevalenza della legge in vigore al momento della nascita come criterio per l’attribuzione di un legame giuridico con lo Stato. L’articolo 20 della legge 91/1992 è categorico nell’affermare che gli effetti dell’acquisizione della cittadinanza devono essere valutati in base alla legislazione vigente al momento degli eventi scatenanti. Si tratta quindi di una clausola di coerenza normativa e non di una mera regola tecnica.

Il decreto legge 36/2025, inserendo l’articolo 3-bis, viola frontalmente questo principio strutturante. La formulazione secondo cui “chi è nato all’estero e possiede un’altra cittadinanza non ha mai acquisito la cittadinanza italiana” è una finzione giuridica – nel senso deteriore del termine – che tenta di cancellare situazioni giuridiche consolidate, delegittimando retroattivamente legami validi nel regime precedente. È una deliberata rottura del principio di continuità normativa, che cerca di ridisegnare effetti consolidati in assenza di legalità temporale. È un’operazione di falsificazione normativa della storia giuridica, che sovverte il tempo giuridico in nome di un presente volontaristico.

Nella dogmatica costituzionale italiana, questa operazione normativa è inammissibile. Come ha insegnato Costantino MORTATI[13] , la Costituzione è anche storia: racchiude in sé una concezione materiale che esige coerenza tra le norme e i fondamenti identitari dello Stato. Revocare effetti giuridici validi alla luce di una legge sopravvenuta non è solo un errore tecnico, ma è un tradimento della stessa razionalità costituzionale. Livio PALADIN, nella sua lettura del principio di legalità[14] , ha avvertito che una norma può essere retroattiva solo quando l’ordinamento riconosce espressamente la compatibilità di tale retroazione con la tutela del legittimo affidamento e dell’integrità dell’ordinamento giuridico. Nel caso di specie, nessuna di queste condizioni è presente.

La violazione diventa ancora più grave se si guarda al quadro del diritto internazionale privato italiano. L’articolo 19 della legge 218 del 1995 stabilisce che la cittadinanza deve essere regolata dalla legge dello Stato di cui si chiede la cittadinanza, in vigore al momento della nascita. Questa norma è più di un comando tecnico: esprime una filosofia del vincolo giuridico, secondo la quale l’identità civile di una persona si costruisce nel tempo, non in absentia. Sovvertire questo principio significa negare la nozione stessa di status civitatis come espressione ontologica della persona nella sfera giuridica.

Dire, quindi, che qualcuno “non è mai stato cittadino” – anche se soddisfaceva tutti i requisiti legali al momento della sua nascita – non è solo un sofisma normativo. È, come direbbe Lenio STRECK[15] , una contraddizione performativa, perché la norma che cerca di negare l’esistenza di un fatto giuridico precedente lo fa dall’interno di un sistema giuridico che riconosce, nella sua struttura, la non retroattività come garanzia fondamentale. In questo contesto, la legge non parla più in nome della Costituzione, ma in nome dell’arbitrio.

Il diritto comunitario conferma questa lettura. Nel famoso caso Rottmann (C-135/08), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto che la perdita della cittadinanza nazionale – con la conseguente perdita della cittadinanza dell’UE – deve essere sottoposta a un controllo di proporzionalità. Nella causa Tjebbes (C-221/17), la stessa Corte ha ribadito che qualsiasi misura che comporti l’esclusione dei diritti basati sulla cittadinanza europea deve tenere conto degli effetti individuali della decisione e rispettare il nucleo duro dei diritti fondamentali. Applicare una norma retroattivamente per annullare una cittadinanza acquisita ex lege sotto un regime precedente è, in questo contesto, una misura sproporzionata e irragionevole e quindi incompatibile con il diritto dell’UE.

Anche la Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 – pur non essendo stata ratificata dall’Italia – impone, ai sensi dell’articolo 18 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), il dovere di astenersi da misure che vanifichino l’oggetto e lo scopo del trattato sottoscritto. E lo scopo è chiaro: impedire la revoca arbitraria della cittadinanza e tutelare la continuità dei legami giuridici consolidati.

L’articolo 3-bis, nella forma proposta, è quindi un caso esemplare di deliberata anomia. Disorganizza il sistema delle fonti, viola il principio di legalità, offende la certezza del diritto e straccia gli impegni internazionali. Sostituisce il passato con un presente autoritario. Proclama la morte ermeneutica dello status civitatis come espressione di appartenenza storica e politica. Revoca non solo la cittadinanza, ma l’idea stessa di persona come centro del diritto.

Non si tratta di tecnica. Si tratta di ideologia. Uno Stato che, negando il diritto di sangue come diritto originario, delegittima il patto stesso che ha dato senso alla sua costituzione repubblicana. E come giustamente ammoniva Calamandrei[16] , “quando la legalità si allontana dalla giustizia, non abbiamo più il diritto, ma solo l’ordine”.

La rottura del patto costituzionale italiano non avviene in un vuoto ermeneutico. In un sistema giuridico multilivello, in cui la cittadinanza nazionale funge da porta d’accesso a uno status giuridico europeo, la negazione dello jus sanguinis come diritto originario non è solo un problema interno, ma una disfunzione proiettata oltre i confini nazionali. Ciò che appare, quindi, come una patologia interna allo Stato di diritto italiano, si ripercuote come una frattura sistemica nell’edificio normativo dell’Unione Europea. Se l’ordinamento italiano non riconosce più i legami d’origine come sufficienti a costituire un’appartenenza, il diritto europeo sarà costretto a fare i conti con il naufragio giuridico di questa decisione. È a questo punto che entriamo nel secondo livello di analisi: la quadratura deontica del diritto dell’Unione europea.

III. IL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E LA PIAZZA DEONTOLOGICA

La cittadinanza dell’Unione europea, prevista dall’articolo 20 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), è più di un’appendice simbolica della cittadinanza nazionale: costituisce uno status giuridico autonomo, con diritti e doveri propri. La Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), in sentenze fondamentali come Rottmann (C-135/08)[17] e Tjebbes (C-221/17)[18] , ha stabilito che qualsiasi misura statale che incida sull’accesso o sul mantenimento della cittadinanza nazionale ha ripercussioni dirette sullo statuto europeo, richiedendo controlli di proporzionalità, ragionevolezza e rispetto dei diritti fondamentali.

Nel caso Rottmann, la CGUE ha avvertito che la perdita della cittadinanza nazionale che comporta la perdita automatica della cittadinanza dell’UE deve essere sottoposta a un’analisi rigorosa della sua compatibilità con i principi generali del diritto europeo. Nella causa Tjebbes, la Corte ha rafforzato l’idea che la perdita della cittadinanza dovuta all’inerzia o all’assenza di un legame attivo deve sempre essere ponderata alla luce degli effetti concreti sull’individuo. Si tratta quindi di un sistema di protezione a più livelli, che impedisce agli Stati membri di apportare modifiche legislative che, con pretesti amministrativi, comportano l’amputazione dei diritti europei.

Alla luce di questo paradigma, gli emendamenti proposti – come l’1.14 (che stabilisce quote annuali per il riconoscimento della cittadinanza), l’1.45 (che sospende il trattamento delle domande eccessive) e l’1.63 (che introduce un sistema meritocratico a punti) – si scontrano direttamente con lo status di cittadinanza europea. Creano barriere strutturali che, se applicate, produrranno effetti discriminatori, limitando l’accesso a diritti quali la libera circolazione, la residenza, il lavoro, l’accesso all’istruzione e alle prestazioni sociali in qualsiasi Stato membro.

Ci troviamo quindi di fronte a quella che chiamo la quadratura deontica del diritto europeo: un sistema normativo che, essendo composto da diversi strati (nazionale, internazionale e comunitario), richiede che ogni decisione legislativa sia conforme all’insieme. La disarmonia tra questi strati porta a disfunzioni sistemiche e alla violazione dei diritti fondamentali.

La cittadinanza dell’Unione è un vettore di integrazione e non può essere usata dagli Stati membri come meccanismo di difesa contro la propria storia migratoria. Come direbbe Jacques ZILLER, la cittadinanza europea è un “elemento legittimante del processo di integrazione stesso”[19] . I legislatori che creano barriere interne al riconoscimento della cittadinanza nazionale bloccano, per estensione, l’accesso al mercato comune, alla tutela giudiziaria europea e alla mobilità lavorativa transnazionale.

In termini ermeneutici, gli emendamenti analizzati costituiscono quello che può essere definito, in linea con il pensiero di Lenio STRECK[20] , solipsismo legislativo nazionale: una legislazione egocentrica che ignora la natura cooperativa e dialogica dell’ordine europeo. La cittadinanza, in questo nuovo modello, non è plasmata dalla storia comune, ma dalle urgenze del contenimento amministrativo. Si rompe così l’unità assiologica del diritto europeo e si frantuma l’immagine dello Stato membro come soggetto affidabile nello spazio giuridico condiviso.

Più che di una violazione del TFUE, si tratta di un abuso di finalità normativa: la cittadinanza viene utilizzata per combattere una presunta “eccedenza di italiani” nel mondo, quando in realtà la posta in gioco è la paura di perdere il controllo sull’identità. Una paura che si veste di gesto legislativo, ma che rivela uno Stato in conflitto con la propria espansione storica.

Come ha concluso la CGUE nella causa Tjebbes, “gli effetti sulla vita privata e familiare dell’interessato devono essere debitamente ponderati”[21] . Una legislazione che ignora questo aspetto non è solo inadeguata. È illegittima.

Ma lo scollamento tra legalità e legittimità non si limita alle strutture normative dell’Unione. Il problema si approfondisce quando si sposta l’asse di analisi su ciò che è – o dovrebbe essere – al centro di ogni sistema giuridico: il soggetto. Perché la posta in gioco non è solo la coerenza tra le fonti, ma la dignità di coloro che sono ridotti a cifre statistiche, forme e rumore normativo. Quando la cittadinanza diventa dipendente da attributi valutabili, test culturali e categorie preformate, il diritto abdica alla sua funzione di garante ed entra nel territorio dell’amministrazione dell’identità. È in questo preciso momento che la critica giuridica deve incontrarsi con la filosofia dei diritti umani.

IV. I DIRITTI UMANI E IL RISCHIO DI REIFICAZIONE DEL SOGGETTO

La legge non può essere il laboratorio dell’asepsi identitaria. Ma è proprio questo che gli emendamenti 1.53 (esame psicosociale), 1.62 (limitazione della cittadinanza per disabilità intellettiva) e 1.66 (divulgazione dei nomi dei richiedenti) cercano di fare: riconfigurare il soggetto giuridico in un oggetto. Ridurre la persona a un’astrazione che può essere controllata, catalogata e, soprattutto, epurata. La cittadinanza, in questo modello, cessa di essere un diritto e diventa un riconoscimento concesso secondo i criteri di un’estetica identitaria imposta – in cui al richiedente è richiesto non di avere un’origine, ma di esibirsi, come se il sangue dovesse superare un esame orale…

È una reificazione che ricorda i momenti peggiori della modernità normativa: quando lo Stato si arroga il potere di distinguere tra corpi adatti e non adatti ad appartenere. Come se la dignità fosse prerogativa di chi sa coniugare i verbi in italiano, o di chi risponde alle interviste con fervore nazionalista. Il soggetto giuridico viene quindi sottoposto a un’ermeneutica del sospetto. La sua indegnità è presunta fino a prova contraria.

L’emendamento 1.53, che prevede una valutazione psicosociale del richiedente, è un’espressione sintomatica di questo processo di “psichiatrizzazione della cittadinanza”. Con il pretesto di valutare il legame affettivo con l’Italia, viene istituito un filtro soggettivo che non trova alcun supporto né nella Costituzione né nei trattati internazionali. Come avrebbe avvertito Hannah Arendt, “quando il diritto di avere diritti dipende dall’approvazione dell’esaminatore, la cittadinanza diventa un privilegio aristocratico”.[22]

L’emendamento 1.62, escludendo le persone con disabilità intellettiva grave, non solo viola la Costituzione italiana (artt. 2 e 3), ma offende direttamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009. Ciò che rivela, tuttavia, va oltre l’illegalità: rivela un’ontologia dell’esclusione, in cui il soggetto che non si esibisce viene scartato come rumore normativo. Come se il valore di una vita potesse essere misurato dalla capacità di dichiarare amore per il proprio Paese. È una cittadinanza eugenetica travestita da razionalità burocratica.

L’emendamento 1.66, prevedendo la pubblicazione nominale dei richiedenti la cittadinanza, viola il diritto fondamentale alla privacy (art. 8 CEDU; art. 1 GDPR). Espone i richiedenti al controllo pubblico, alla sorveglianza della comunità e all’etichettatura politica. È la consacrazione di una nuova liturgia statale: quella dello spettacolo dell’appartenenza, in cui il soggetto è riconosciuto solo se è visibile – e addomesticabile.

In tutte queste proposte, la posta in gioco non è solo la forma di accesso alla cittadinanza. È la natura stessa dell’oggetto dei diritti. L’obiettivo, sotto vesti amministrative, è quello di sostituire il riconoscimento giuridico con il consenso morale. O, in termini più drastici, di istituire una liturgia purificatrice, dove la cittadinanza non viene data a chi appartiene, ma a chi si inginocchia davanti allo specchio istituzionale dell’italianità ufficiale.

Come insegnava Luigi FERRAJOLI, lo Stato di diritto non si realizza solo nella legalità delle procedure, ma nella struttura di garanzia che protegge il soggetto dall’arbitrio[23] – compreso l’arbitrio simbolico. Quando lo Stato richiede la prova dell’identità, non è più un garante. È diventato inquisitorio.

È in questo senso che possiamo dire, con tristezza ermeneutica, che questi emendamenti non sono semplicemente tecnici: sono espressione di una nuova forma di autoritarismo. Un autoritarismo senza stivali, ma con forme. Senza censura ufficiale, ma con criteri “tecnici” di purezza civile. Senza campi, ma con algoritmi. La cittadinanza, in questo nuovo modello, è meno un diritto e più un rito di iniziazione, richiesto dal Leviatano amministrativo per consentire l’ingresso nel mondo del riconosciuto.

Ed è contro questo che il diritto deve insorgere. Perché, come ha giustamente sottolineato Calamandrei, “quando la cittadinanza diventa un favore, la libertà è già diventata una concessione” .[24]

Una volta ridotto il soggetto al rango di oggetto valutabile, non resta che la standardizzazione del calcolo. La dignità, un tempo fondamento, diventa una variabile di costo. La fase successiva è inevitabile: la cittadinanza diventa un prezzo, gestito da metriche fiscali e tradotto in termini di sostenibilità di bilancio. Non è più un diritto, ma un equilibrio – economico, burocratico, politico.

V. IL DIRITTO ECONOMICO E IL CRITERIO DI RAGIONEVOLEZZA AMMINISTRATIVA

C’è una differenza abissale tra organizzare l’amministrazione e trasformare il diritto in una merce. Ma è proprio questa la linea che molti degli emendamenti che stiamo esaminando attraversano – silenziosamente, come chi modifica l’architettura di un edificio senza che le fondamenta se ne accorgano.

Gli emendamenti 1.43 (vincolo economico obbligatorio), 1.58 (tassa progressiva in base al reddito del richiedente) e 1.65 (obbligo di traduzione giurata anche per i documenti italiani) rivelano una pericolosa mutazione: lo spostamento della cittadinanza dal campo dei diritti fondamentali al mercato della convenienza fiscale e dell’efficienza amministrativa.

Il problema, ovviamente, non sta nel cercare una maggiore razionalità nelle procedure. La ragionevolezza amministrativa è, come insegna Massimo Severo Giannini[25] , una dimensione legittima dell’azione statale. La perversione nasce quando questa ragionevolezza cessa di essere misurata dalla tutela dei diritti fondamentali e comincia a essere guidata da criteri utilitaristici di raccolta e selezione sociale.

Il requisito del legame economico (emendamento 1.43) stabilisce la logica del “cittadino-investitore”: solo chi contribuisce finanziariamente al PIL merita di appartenere alla nazione. Si tratta di una cittadinanza come bene di mercato, non come legame storico.

L’imposta progressiva (emendamento 1.58), se mal calibrata, trasforma il riconoscimento della cittadinanza in un privilegio di classe. Chi può pagare di più ha un accesso più facile; chi non può farlo è costretto al silenzio procedurale. Il controllo della cittadinanza diventa quindi un meccanismo di esclusione socio-economica – in palese violazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 della Costituzione italiana.

E l’obbligo di traduzione giurata di documenti rilasciati dall’Italia stessa (emendamento 1.65) è il più chiaro esempio di burocratismo autofagico: lo Stato diffida dei propri documenti, imponendo inutili costi e ostacoli a chi sta semplicemente rivendicando ciò che già gli appartiene per diritto di sangue.

Questo è ciò che chiamo “colonizzazione economica del diritto di cittadinanza”. Un processo silenzioso in cui lo Stato trasforma il riconoscimento legale in una variabile di bilancio e il diritto in una merce di scambio.

Come avvertiva Stefano RODOTÀ nei suoi studi, “il rischio contemporaneo è quello di trasformare i diritti in merci e i cittadini in consumatori di cittadinanza”[26] . Gli emendamenti analizzati vanno esattamente in questa direzione: la cittadinanza cessa di essere un’appartenenza storica e diventa un prodotto amministrativo, soggetto a prezzo, mancanza e negoziazione.

Questa razionalità economica deve essere denunciata con veemenza ermeneutica. Perché la cittadinanza – ci insegna Giuseppe de VERGOTTINI su[27]“non è un favore, non è un premio, non è una concessione; è soprattutto l’espressione giuridica di una storia collettiva”.

La Pubblica Amministrazione, quindi, può (e deve) organizzarsi in modo efficiente. Ma mai a costo della sostanza stessa dei diritti fondamentali. Quando il filtro amministrativo sostituisce il riconoscimento giuridico, lo Stato non solo nega la sua Costituzione. Tradisce la sua memoria.

Una volta diventata un bene, la cittadinanza non è più un ricordo ma un prodotto. Ma un prodotto che non è offerto a tutti: richiede prove, frequenza, reddito… Il passo successivo è logico – e tragico. Ciò che avrebbe dovuto riparare le ingiustizie storiche inizia a riprodurle. Invece di includere, la legge inizia a selezionare coloro che sono rimasti fuori dalla stessa narrazione nazionale.

VI. DIRITTI SOCIALI, MIGRAZIONE E PARADOSSO DELLA REGRESSIONE

In un mondo in cui le cittadinanze vengono scambiate per criptovalute, “vendute” nell’ambito di programmi di visti d’oro o offerte come bonus agli investitori globali, vietare ai discendenti italiani di recitare Dante o di non aver vissuto a Milano è più che cinismo: è una tragica ironia storica.

Non è solo una questione di incongruenza normativa. Si tratta di quella che io chiamo una regressione strutturale ermeneutica: un processo in cui, con il pretesto di proteggere l’”italianità”, il legislatore annulla secoli di storia migratoria e di appartenenza transnazionale.

La cittadinanza iure sanguinis non è mai stata un privilegio concesso dalla benevolenza dello Stato. Come insegna Francesco GALGANO[28] , lo ius sanguinis è “espressione del vincolo storico che precede lo stesso ordinamento giuridico positivo”. Il riconoscimento della cittadinanza per discendenza è quindi un atto di riparazione storica. Riparazione per le diaspore causate da carestie, guerre, persecuzioni, esilio economico e politico.

. È l’istituzionalizzazione dell’indifferenza sotto la veste della tecnica. La cittadinanza – che dovrebbe essere l’espressione dichiarativa di un legame preesistente – viene qui trasmutata in un’eccezione gestita, dipendente da prestazioni, rituali e autorizzazioni. L’appartenenza, un tempo presupposto, diventa prova. Il legame, una volta riconosciuto, richiede ora una certificazione. Prima il corpo è stato espulso nell’esodo della carestia e della guerra. Ora, la memoria viene espulsa rifiutando il vincolo legale. Ieri la nave. Oggi l’anagrafe. L’esilio, una volta geografico, diventa normativo. E l’amministrazione dell’identità diventa l’arte di negare burocraticamente ciò che lo Stato stesso ha contribuito a costituire.

In termini di diritti sociali, questa battuta d’arresto è ancora più drammatica. Perché la cittadinanza, in quanto vettore di inclusione sociale e accesso ai diritti, è uno strumento di promozione della dignità umana. Imporre test culturali, barriere territoriali e filtri meritocratici, come proposto negli emendamenti, equivale a trasformare la cittadinanza in un “lusso identitario”. Un bene scarso da distribuire ai “meritevoli”, a scapito di chi, per ragioni storiche, culturali o economiche, non può soddisfare i criteri di purezza previsti.

Come avvertiva Pietro BARCELLONA[29] , “la cittadinanza è il nome legale della dignità sociale”. Privatizzarla per esigenze di performance identitaria o di redditività economica significa negare la sua funzione sociale originaria.

Inoltre, tradisce lo spirito stesso della Costituzione del 1948, nata dall’esperienza dell’esclusione, dell’esilio e della privazione. Come può uno Stato ricostruito sulle ceneri del fascismo pretendere che i propri figli lontani superino esami culturali e soddisfino requisiti di residenza fiscale per essere riconosciuti come parte del “noi” collettivo?

Il paradosso, quindi, è profondo. In un momento storico in cui la cittadinanza viene estesa globalmente agli investitori e alle élite transnazionali, si intende limitarla a coloro che, per discendenza, sono parte legittima della storia nazionale. Come se l’Italia potesse dimenticare che, per decenni, ha esportato i suoi figli non per capriccio ma per necessità. E come se la memoria della migrazione potesse essere cancellata amministrativamente con la firma di un decreto.

In termini ermeneutici, ciò che si osserva è una dimenticanza proiettata: un’amnesia normativa che spezza il legame intergenerazionale dell’identità nazionale.

A fronte di ciò, non possiamo che ribadire: la cittadinanza iure sanguinis è un atto di giustizia storica. Non è benevolenza, non è un premio, non è una concessione. È il riconoscimento giuridico di una storia che nessun filtro amministrativo può cancellare.

E, come diceva Norberto BOBBIO[30] , “la storia della libertà è una storia di continue conquiste contro l’arbitrio”. Oggi la difesa della cittadinanza dei discendenti italiani fa parte di questa storia.

Se la storia della libertà è fatta di conquiste, è anche fatta di sorveglianza. E ci sono momenti – come questo – in cui il silenzio istituzionale si trasforma in complicità normativa. La difesa della cittadinanza dei discendenti italiani non è solo una causa legale: è un imperativo ermeneutico. Perché la posta in gioco non è una procedura, ma il patto stesso di riconoscimento su cui poggia la promessa costituzionale. È a partire da questa consapevolezza che si impone un ultimo gesto affermativo.

INFINE: IL SANGUE NON È REVOCATO

Uno Stato che chiede la prova dell’italianità è uno Stato che dubita della propria identità. È uno Stato che rifugge lo specchio della sua storia e nega la sostanza stessa della sua formazione. Non c’è cittadinanza senza memoria e non c’è memoria senza riconoscimento. Sottomettere la cittadinanza al mercato, al misticismo culturale o al volontarismo burocratico significa profanare la promessa costitutiva del 1948.

Il sangue non viene revocato.

Trasformare la cittadinanza in una merce – venduta agli investitori e negata ai discendenti – è più che un degrado normativo: è un’anomia civile. Se la cittadinanza può essere concessa a chi la paga e negata a chi la eredita, il prossimo passo sarà quello di misurare la dignità con il metro, pesare l’identità sulla bilancia delle tasse e vendere i passaporti come si vendono i telefoni cellulari in una vetrina globale.

La storia, tuttavia, è impietosa nei confronti di chi tradisce i propri morti. Fa pagare caro chi, per convenienza amministrativa, mette a repentaglio l’integrità del patto costituzionale che ha unito passato, presente e futuro sotto forma di cittadinanza. Ogni decreto ingiusto, ogni emendamento discriminatorio, ogni filtro identitario imposto alla cittadinanza è una crepa nell’edificio della civiltà. E, come ammoniva CALAMANDREI, “a volte la democrazia muore in silenzio, per la stanchezza dei suoi stessi custodi”.

Spetta ai vivi lottare contro questa regressione travestita da gestione pubblica. Una lotta che non è solo giuridica, ma anche filosofica e sociologica: per la riappropriazione della legge come strumento di inclusione e per il rifiuto della cittadinanza come privilegio economico o performativo.

I giuristi hanno una responsabilità ancora maggiore: ricordare ai legislatori che la Costituzione è una norma, non un ornamento. Che la cittadinanza è un’appartenenza, non una concessione. Che la legge, prima di essere uno strumento di potere, è un limite al potere. Che l’amministrazione esiste per servire i diritti, non per filtrarli.

Come insegnava Luigi FERRAJOLI, “lo Stato di diritto non è quello che si limita a creare norme, ma quello che si sottomette alle norme che tutelano i diritti fondamentali”.

E nel contesto della cittadinanza, proteggere significa riconoscere, non misurare. Rispettare, non testare. Dichiarare, non concedere.

Di fronte alla regressione ermeneutica che si annuncia, spetta a ogni coscienza giuridica, a ogni studioso, a ogni cittadino, rifiutare l’oblio prospettato. E proclamare, con la serenità di chi comprende la gravità dei tempi:

Il sangue non può essere revocato. La storia non può essere negoziata. La dignità non può essere venduta.

RIFERIMENTI

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[1] Dottore in Diritto Internazionale presso l’Università Cattolica di Santa Fe, Master in Diritto Internazionale presso l’Università Metodista di Piracicaba, Professore presso il PPGD della PUC Minas, Membro della Società Brasiliana di Diritto Internazionale, Segretario generale della Commissione di Stato per il Commercio Estero dell’OABSP, membro della Commissione di Stato per il Diritto Internazionale dell’OABSP e membro della Commissione di Stato per le Relazioni Internazionali e l’Integrazione del Mercosur dell’OABRS. È avvocato in Brasile e in Portogallo. E-mail: rui.badaro@lawby.com.br

[2] ZAGREBELSKY, Gustavo. Il diritto mite: legge, diritti, giustizia. Torino: Einaudi, 1992, p. 15.

[3] Cfr. STRECK, Lenio Luiz. Ermeneutica giuridica in crisi. Porto Alegre: Livraria do Advogado, 2020, p. 149.

[4] CALAMANDREI, Piero. Elogio dei giudici scritto da un avvocato. Milano: Garzanti, 1954, p. 93-95

[5] VERGOTTINI, Giuseppe de. Diritto costituzionale comparato. Padova: CEDAM, 2004, pagg. 121-125.

[6] BOBBIO, Norberto. Teoria generale del diritto. Torino: Giappichelli, 1958, p. 39

[7] COTTA, Sergio. Il diritto nell’esistenza. Milano: Giuffrè, 1966, p. 17-21

[8] CARNELUTTI, Francesco. Teoria generale del diritto. Roma: Edizioni Studium, 1950, pagg. 29-32.

[9] CARLASSARE, Lorenza. La Costituzione e le sue ragioni. Torino: Bollati Boringhieri, 2002, p. 12.

[10] VERGOTTINI, Giuseppe de. Diritto costituzionale comparato. Padova: CEDAM, 2004, p. 125.

[11] ZAGREBELSKY, Gustavo. Il diritto mite: legge, diritti, giustizia. Torino: Einaudi, 1992, p. 88.

[12] DWORKIN, Ronald. L’impero del diritto. Harvard University Press, 1986, p. 176-180.

[13] MORTATI, Costantino. La Costituzione in senso materiale. Milano: Giuffrè, 1940, p. 56-59.

[14] PALADIN, Livio. Il principio costituzionale d’eguaglianza. Milano: Giuffrè, 1965, p. 101-103.

[15] STRECK, Lenio Luiz. Ermeneutica giuridica in crisi. 11. ed. São Paulo: Saraiva, 2014, p. 117-122.

[16] CALAMANDREI, Piero. Elogio dei giudici scritto da un avvocato. Milano: Garzanti, 1954, p. 144.

[17] CGUE, C-135/08, Rottmann c. Bayern, 2 marzo 2010, §§ 55-59.

[18] CGUE, C-221/17, Tjebbes, 12 marzo 2019, § 48.

[19] ZILLER, Jacques. La cittadinanza dell’Unione. Bologna: Il Mulino, 2007, p. 33.

[20] STRECK, Lenio Luiz. Ermeneutica giuridica in crisi: un’esplorazione ermeneutica della costruzione del diritto. 11. ed. Porto Alegre: Livraria do Advogado, 2020, p. 147-154.

[21] CGUE, C-221/17, Tjebbes, 12 marzo 2019, § 48.

[22] Cfr. ARENDT, Hannah. Le origini del totalitarismo. New York: Harcourt, 1951, p. 296.

[23] Cfr. FERRAJOLI, Luigi. Diritti e garanzie: la legge come limite al potere. Roma-Bari: Laterza, 2004, p. 31

[24] Nota dell’autore: Parafrasando CALAMANDREI, Piero. Elogio dei giudici scritto da un avvocato. Milano: Garzanti, 1954, p. 101.

[25] GIANNINI, Massimo Severo. Diritto amministrativo. Milano: Giuffrè, 1970, p. 162-165.

[26] RODOTÀ, Stefano. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza, 2012, p. 99

[27] VERGOTTINI, Giuseppe de. Diritto costituzionale comparato. Padova: CEDAM, 2004, p. 211.

[28] GALGANO, Francesco. La cittadinanza. Bologna: Il Mulino, 2000, p. 45.

[29] BARCELLONA, Pietro. Il declino dello Stato di diritto. Roma: Editori Riuniti, 1998, p. 72.

[30] BOBBIO, Norberto. Teoria generale del diritto. Torino: Giappichelli, 1958, p. 124.

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