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I parametri della efficienza ,della economicità, della efficacia, tra sperimentazione e attuazione.

Il ruolo della Corte dei conti tra il 1984 e il 1990 (e d oltre): una esperienza indimenticabile sotto l’egida della Corte dei conti.

di Rosario Scalia, Presidente aggiunto on. della Corte dei conti*; avv. Federica Scalia, Ricercatrice dell’Istituto “Max Weber”

Sommario: Premessa; 1. La legislazione nazionale posta a supporto delle Nuove Tecniche Gestionali, fondate sui parametri delle tre “È della “Dichiarazione di Lima” (1977); 1.1 La elaborazione del Progetto FEPA (1984) e la sua attuazione. 1.2 Il ruolo di supporto della Corte dei conti per la declinazione operativa del principio del buon andamento dell’azione amministrativa; 2. L’influenzabilità del sistema dei controlli interni da parte del decisore politico. L’esigenza di un controllo indipendente esterno;3. La formazione delle dirigenze sul campo, realizzando il Progetto FEPA. Accumulo di esperienza manageriale e sua (difficile) diffusione.

Abstract: Gli interventi legislativi riguardanti la Pubblica Amministrazione, promossi dai Governi che si sono succeduti in Italia negli anni settanta fino agli anni novanta del secolo scorso (e che hanno influenzato gli anni 2000), non hanno sortito quegli effetti di natura innovativa che erano stati previsti da decisori tecnici appartenenti all’Accademia. La mancanza di un controllo di esecuzione delle leggi relative, diversamente da ciò che avviene negli USA e in altri Paesi d’Europa, che hanno dato seguito prontamente ai principi della “Dichiarazione di Lima” sul controllo indipendente esterno delle Istituzioni superiori di controllo, ha determinato, tra i cittadini e le imprese, stati di illusione e, al contempo, ha favorito decisioni arbitrarie assunte dalle burocrazie al solo scopo di assicurare una esecuzione differita nel tempo della legislazione riguardante il “sistema dei controlli interni”. Non trovandosi la Corte dei conti di fronte a un sistema funzionante ,pur avendo dato il suo contributo tecnico alla realizzazione del Progetto “Funzionalità ed Efficienza della Pubblica Amministrazione” (1984-1988), la sua Magistratura ha preferito concentrarsi sul controllo economico-finanziario del sistema degli Enti Locali, rinunciando, de facto, ad assumere un ruolo di guida per dare sostanza di contenuti al principio del buon andamento ex art. 97 Cost., pur essendo stata chiamata dal Legislatore nazionale ad occuparsene già nel 1981, in occasione della istituzione della Sezione Enti Locali (Sezione delle Autonomie, dal 2000).

Abstract: Legislative interventions concerning Public Administration, promoted by successive governments in Italy in the 1970s until the 1990s (and which influenced the 2000s), did not have those effects of an innovative nature that the technical decision makers belonging to the Academy had envisaged. The lack of enforcement control of related laws, unlike in the U.S. and other countries of Europe, which have readily followed up on the principles of the “Lima Declaration” on the independent external control of the Supreme Audit Institutions, has resulted in states of illusion among citizens and businesses and, at the same time, has fostered arbitrary decisions made by bureaucracies for the sole purpose of ensuring deferred execution over time of legislation concerning the “system of internal controls.”

As the Court of Audit has not a working system, although has made its technical contribution to the implementation of the Project “Functionality and Efficiency of Public Administration” (1984-1988), its Judiciary has preferred to focus on the financial control of the system of Local Authorities, renouncing, de facto, to take a leading role to give substance of content to the principle of sound administration pursuant to art. 97 of the Constitution, although it has been called by the national legislature to deal with it already in 1981, on the occasion of the establishment of the Local Authorities Section (now, Self-government Section).

Traduzione a cura di Monica Pratesi.

Premessa

Questo saggio vuole continuare a parlare con gli stessi toni pacati e persuasivi con cui, per diversi anni, ha parlato Sergio Ristuccia, sia quando ha messo a disposizione di molti (i suoi colleghi Magistrati della Corte dei conti) la sua professionalità, nel ruolo di Segretario generale della Corte dei conti (1986-1989), sia quando ha dato il suo contributo tecnico-scientifico all’Esecutivo, in qualità di Capo di Gabinetto al Ministro del Tesoro di allora, il prof. Beniamino Andreatta (18.10.1980-1.12.1982), sia quando si è interessato dei temi della cultura politica e imprenditoriale in qualità di Segretario generale della Fondazione “Adriano Olivetti” (1977-1987)([1]), sia quando si è interessato alle politiche sociali e al loro impatto sui bilanci pubblici quando ha occupato il posto di Presidente del Comitato italiano per le scienze sociali (1991-2014), divenuto Consiglio italiano per le scienze sociali.

Non si sa se questa semplice aspirazione diventerà realtà, ma rimane il tentativo – fatto con questo saggio – di voler afferrare il “filo rosso” che unisce le diverse “Riforme” che si sono succedute nel tempo in Italia facendo leva su alcune parole-chiave o parole-simbolo: responsabilità gestionale, costi/risultati, efficienza, efficacia ed economicità… E, infine,” organizzazioni” e “istituzioni”.

Tutti termini riscontrabili nel tessuto normativo delle leggi approvate sul tema. Termini che, a causa della arretratezza culturale di certa accademia, sono stati usati con significati, a volte non chiari, a volte distorti o ambigui rispetto al loro significato primigenio.

Il che ha determinato situazioni di permanente confusione tra le burocrazie che di questo stato di fatto hanno approfittato per non dare esecuzione a diverse disposizioni di legge. Costringendo il Legislatore a ritornare sul tema, ma senza che il ritorno possa considerarsi una innovazione, qualificandosi il “nuovo” testo come una “legge-risacca” (ricorrendo al linguaggio di un sociologo del diritto come lo è stato Romano Bettini), ovvero meramente ripetitiva della precedente.

E si cercherà di capire come, richiamando alla memoria una vicenda a grande impatto sul sistema amministrativo nazionale , la Magistratura della Corte dei conti abbia saputo utilizzare queste parole-simbolo per dare un nuovo significato alla funzione del controllo indipendente esterno ad essa intestata dalla Costituzione.

Non possiamo, comunque, fare a meno di riportare quello che suona, oggi, come un auspicio, o desiderio di questo studioso della Pubblica Amministrazione … e, al contempo, come il suo timore più profondo: “speriamo di non essere soli”.

Questa l’espressione usata dal prof. Sergio Ristuccia in un momento cruciale della storia delle nostre Istituzioni.

Per questo – e per renderci conto della complessità del sistema amministrativo e di come esso abbia reagito con atteggiamento difensivo a fronte delle innovazioni prospettate o solo annunciate – bisognerà partire da lontano, dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso.

È nel lontano 1966 che viene dato, infatti, alle stampe il libro del prof. Mario Nigro dal titolo: “Studi sulla funzione organizzativa della pubblica amministrazione”.

E i tre elementi fondamentali di essa (il potere di organizzazione degli uffici; la disciplina generale dei rapporti di lavoro; la gestione del personale) continuano ad essere trattati e, quindi, analizzati nel contesto della tradizione pubblicistica.

Ma appena due anni dopo (1968) si avrà modo di avviare la prima discussione sulla possibilità di assumere un’iniziativa parlamentare intesa a sperimentare l’applicazione della contrattazione sindacale (privata) al personale dipendente da una pubblica amministrazione.

È dall’intuizione del prof. Mario Nigro che occorre, comunque, prendere l’avvio per assicurare una sostanziale sequenzialità logica all’evoluzione che il mondo assai complesso e vario del pubblico impiego subirà fino ai nostri giorni: il potere organizzativo delle amministrazioni pubbliche e il potere organizzativo dell’imprenditore privato, alla fin fine, sono analoghi.

Infatti, ambedue i poteri presentano la stessa radice in quanto l’obiettivo è identico: assicurare un prodotto/un servizio al cittadino-cliente al minor costo possibile (per chi produce, sia essa azienda privata, sia essa amministrazione pubblica) ([2]).

Al fondo di questo ragionamento c’è, comunque, un’intuizione teorica che, a distanza di anni, rimane tutta da verificare: quella secondo cui il datore di lavoro pubblico ragiona, quando organizza le risorse disponibili, allo stesso modo del datore di lavoro titolare d’impresa.

Cosa non rispondente ai fatti e ai comportamenti ([3]) delle dirigenze del settore pubblico, se si seguono i risultati delle ricerche fatte dal prof. William A. Niskanen, appunto, negli USA.

Così che, alla fine di un lungo percorso di modifiche e di aggiustamenti fatti (dal 1993 fino al 2002, ed oltre) nell’intento di voler assimilare per via normativa i comportamenti dei due datori di lavoro, ci si rende conto a distanza di anni, che alcuni obiettivi non risultano del tutto centrati.

Anzi, con molta probabilità, si sono poste le condizioni per la creazione di un “sistema di potere” sulla cui modificabilità si è costretti a dover perdere, con i tempi che corrono, anche la speranza.

E ciò accade quando si affida la correzione delle decisioni a soggetti che non rispondono al principio di coerenza alla legge.

Occorre fare – a questo punto – qualche passo indietro in modo da capire come alcuni protagonisti del tempo andato – al di là dei trionfalismi enunciati da una dottrina accademica che si è rivelata incapace (o forse indisponibile) a leggere la realtà che scorreva dinanzi ai suoi occhi – non si sono sottratti al loro ruolo di “critici ragionevoli”.

Uno di questi è stato Sergio Ristuccia.

Nel 2014, egli – nella qualità di Presidente del Comitato italiano per le scienze sociali – nel suo “editoriale” apparso sulla Rivista “Queste Istituzioni” rileva:

«Nel 1973, quando questa rivista muoveva i suoi primi passi, l’amministra-zione era nel mezzo dell’onda d’urto della contestazione del Sessantotto.

Successivamente, discorsi e non poche leggi in materia di riforma della “pubblica amministrazione” (centrale e decentrata) si sono susseguite nella scarsa consapevolezza di che cosa questo significasse e comportasse soprattutto dal punto di vista della volontà politica.

Così la macchina amministrativa – a cui spetterebbe la cura di interessi pubblici concreti – si è trovata e si trova spesso marginalizzata, a conquistarsi spazi con spirito difensivo e corporativo, accettando di fare da simulacro sacrificale agli occhi dei cittadini che, sotto il vessillo della lotta alle burocrazie, credono di combattere la loro battaglia contro uno Stato percepito come estraneo e distante».

Anticipando, nei limiti in cui è possibile farlo, le conclusioni dei ragionamenti svolti in ordine a tale questione si può affermare che le regole alle quali deve conformare il proprio comportamento, da un lato, il datore di lavoro pubblico e quelle cui si deve ispirare il datore di lavoro privato, dall’altro, sono diverse; quindi, l’assimilazione che si può immaginare di operare non potrà mai essere totale.

In sostanza, dopo le riflessioni svolte dalla Corte Costituzionale, si è giunti ad accettare la tesi di una “visione privatistica”, nell’ambito delle istituzioni pubbliche (che la scienza dell’amministrazione americana qualifica organizzazioni non profit) della gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti; e ciò sulla base della considerazione che l’attività organizzativa e l’attività di regolazione dei rapporti di lavoro non sono rette da un” vincolo di scopo” unitario.

Infatti, il “vincolo di scopo” risulterebbe presente, se non immanente, solo nell’attività di natura pubblicistica (missioni istituzionali).

Non è un caso che siano stati richiamati, nel contesto del provvedimento normativo che ha rifondato il sistema delle organizzazioni pubbli auspicio che rimarrà, peraltro, tale nella successione della legislazione di modificazione e di integrazione del testo originario del citato d.lgs. n. 29/93.([4])

Sul punto sembra utile ricordare come sia stato Massimo Severo Giannini a elaborare una distinzione concettuale (che avrebbe dovuto essere anche contenutistica) tra “interessi finali” e “interessi strumentali”: i primi individuabili nelle funzioni pubbliche destinate al soddisfacimento dei diritti civili e sociali dei cittadini, delle diverse collettività; i secondi riguardanti l’organizzazione e il funzionamento dell’amministrazione, cioè degli apparati([5]).

Ed è proprio questo studioso che riconosce agli atti organizzativi strumentali “sostanza aziendale”, e, in quanto così connotati, ritiene che essi finiscano per appartenere, “in fondo, all’attività privata dell’amministrazione”.

Ed è, avendo per sfondo tali riflessioni, che si viene maturando la convinzione che l’attività organizzativo-strumentale risulterebbe sganciata dall’interesse pubblico e, perciò, potrebbe risultare disciplinata fuori dall’ombrello che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento offrono, invece, al sistema delle funzioni finali.

Al contempo, il Parlamento veniva richiesto di assicurare al Paese una nuova disciplina nella materia dei controlli, sia ridisegnando il sistema dei controlli interni (art. 20, d.lgs. n. 29/93; d.lgs. n. 286/99) sia del controllo indipendente esterno di competenza della Corte dei conti; e, ancora, una nuova e diversa disciplina, rispetto al passato prossimo, in materia di responsabilità amministrativo-contabile di competenza sempre del Giudice contabile ([6]).

Negli anni che vanno dal 1993 (d.lgs. n. 29) al 2000 (post d.lgs. n. 286) – in sostanza, nell’arco di tempo di poco più di sette anni – si assiste a una rimeditazione profonda del ruolo che la funzione di controllo (interno ed esterno) può svolgere, ai fini del perseguimento del miglioramento della produttività (performance) del sistema amministrativo ai diversi livelli di governo.

Ma l’impreparazione culturale è grande, assai diffusa; tanto grande che se ne discute, nei diversi convegni, seminari, incontri di studio, con altrettanto grande fervore, con altrettanto significativo entusiasmo, formulandosi sempre l’auspicio che si dettino regole più chiare ([7]).

Ma era solo una questione di regole non chiare? O altri intendimenti frastornavano le menti delle diverse burocrazie?, e quelle dei relativi sindacati di categoria?

Se ne discute, tra l’altro, in un contesto ordinamentale, quello del sistema degli Enti Regione, che non sembra disponibile ad accettare che la Corte dei conti possa esercitare nei confronti di tale livello di governo il più qualificato dei tipi di controllo possibili, quello della “valutazione delle politiche pubbliche”, dopo aver controllato (anzi, accertato) i relativi costi dei fattori della “produzione” (controllo di gestione).

Ed è dovuta intervenire la Corte costituzionale per assicurare alla Corte dei conti l’esercizio di un controllo indipendente esterno, le cui radici sono da rintracciare nel principio del buon andamento previsto dall’art. 97 della Costituzione: principio questo valevole sia per il Legislatore nazionale che per i Legislatori regionali… anche dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, resa applicabile nel nostro ordinamento solo due anni dopo, nel 2003, con la legge n. 131 (art. 7, cc. 7 e 8).

Il sistema dei controlli, che da cartolare su atti diventa (rectius, sarebbe dovuto diventare) sostanziale, e il sistema delle regole della “sana gestione”, che deve essere caratteristica della cultura delle diverse dirigenze pubbliche, di tutti gli operatori pubblici, si trova ad avere sempre più punti di contatto comuni nel ricercare metodi e tecniche da sperimentare, si trova a dover costruire insieme modelli in grado di dare agli utenti le risposte che essi si attendono… di avere.

Il Legislatore nazionale, quindi, ha assicurato alle dirigenze pubbliche, alle quali veniva imposto l’onere della responsabilità gestionale nella sua interezza (principio di separazione/distinzione tra l’azione politica e l’azione amministrativa), gli strumenti necessari per lo svolgimento del loro nuovo ruolo in tempi che, oggi, si possono qualificare come disallineati([8]).

Allo stesso modo, la cultura della sana gestione (finanziaria, amministrativa, tecnica), della gestione che avrebbe dovuto essere curata e controllata secondo indicatori (o indici) diversificati ([9]), a seconda del parametro utilizzato (di legittimità-regolarità, di efficienza, di economicità, di efficacia), non poteva essere generata nelle aule dell’Accademia; e ciò a causa della “lontananza culturale” che questa ha sempre presentato in Italia dalla realtà aziendale come da quella delle istituzioni pubbliche.

A parte ogni considerazione sulla qualità della saggistica sul tema della “sana gestione” delle politiche pubbliche/delle missioni istituzionali, che veniva riguardata sotto il profilo del possibile controllo (di gestione) esercitabile su di esse, la dirigenza, che avvertiva l’ebbrezza (mista a sgomento…), oltre che il peso, di coprire spazi gestionali prima riservati al decisore politico, si è trovata a leggere, nei diversi provvedimenti legislativi di fonte parlamentare, il termine in questione portatore di significati il più delle volte contrastanti con gli orientamenti che la dottrina, per suo conto, veniva maturando nel tempo, ma con grande fatica.

L’esperienza amministrativa maturata in quel periodo storico (che è possibile riassumere nella considerazione di essersi ritrovata la dirigenza sia statale sia regionale sia locale in uno stato generalizzato di confusione terminologica e contenutistica) ([10]), e che è da riconnettere ai principi di “sana gestione” ai quali si sarebbero dovuti ispirare i comportamenti delle dirigenze, non sembra essere esaltante.

E non può esserlo per un motivo che a molti sfugge: le dirigenze dei diversi livelli di governo, che si sono esposte al controllo del giudice penale fino agli inizi degli anni novanta in misura assai ridotta in quanto valeva la regola dei differenziati livelli di importo dei contratti per l’acquisizione di beni/di servizi da parte della Pubblica amministrazione, pongono naturalmente più attenzione – ora che tale regola è soppiantata dal principio di separazione tra politica e amministrazione – al rispetto del procedimento (parametro della legittimità) piuttosto che al rispetto dei parametri della economicità e dell’efficienza.

D’altra parte, non si può, neppure a distanza di tanto tempo, stigmatizzare un simile comportamento: nel clima in cui nasceva la “riforma delle riforme”, il decreto legislativo n. 29/93, l’attenzione delle dirigenze pubbliche risultava (e continuerà ad esserlo) orientata a mettere a punto un sistema di tutela (di attenzione) tale da non rendere rintracciabile al giudice penale l’abuso d’ufficio che fosse stato tenuto nel comportamento verso i cittadini e le imprese. Fenomeni di abuso, purtroppo, legati e/o connessi ad atteggiamenti predatori (ricerca della “tangente”).

Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 29/93 la dottrina amministrativistica continuerà ad occuparsi del tema del miglioramento dell’attività amministrativa, ma lo farà seguendo piste diverse da quelle segnate nei diversi articoli di quel provvedimento:

a)     individuerà la “completa privatizzazione” del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, da estendere alla dirigenza ([11]), come l’innovazione capace di assicurare la massima efficienza ed economicità di azione della Pubblica Amministrazione;

b)     indicherà nella “semplificazione amministrativa” ([12]) lo strumento per riconciliare il cittadino/l’impresa con il sistema delle pubbliche istituzioni;

c)      considererà preminente la qualità della regolazione (riduzione drastica delle innumerevoli leggi vigenti; maggiore chiarezza nella scrittura dei provvedimenti normativi: delegifica-zione) di fonte parlamentare ([13]), rispetto al sistema delle “migliori soluzioni” (best practices) fornite dalle dirigenze nei casi di quotidiana gestione ([14]).

Queste piste sono state tutte battute. E ci si chiede, soprattutto, con quali risultati? E in un contesto istituzionale tutto particolare. Non bisogna dimenticare il fatto che lo Stato con i suoi Ministeri veniva additato dalla classe dirigente politica (tutta) come quel livello di governo che si sarebbe dovuto preoccupare di dimagrire… mentre le attese di un accrescimento di competenze (funzioni) da parte di tutti gli altri livelli di governo venivano alimentate al di fuori di ogni ragionevole dubbio.

Per poi concludersi l’attività di conferimento delle funzioni e dei compiti statali in una serie di decreti legislativi tra il 1997 e il 1999, e l’effettiva allocazione delle risorse, strumentali e finanziarie, negli anni 2000-2002…

In una fase storico-istituzionale in cui – come è noto – ferveva il dibattito su quali funzioni (che, peraltro, erano state già trasferite “a Costituzione invariata”) si sarebbero dovuto assegnare alle Regioni. Una carta costituzionale, dunque, confermativa di un processo politico concluso.

Il clima di incertezza istituzionale si è sostanzialmente diradato agli inizi della XIV^ Legislatura, quando si è ridato vita ad alcuni Ministeri, che nel disegno riorganizzativi dei precedenti Governi avrebbero dovuto perdere la loro identità istituzionale.

Ma gli effetti della legge costituzionale n. 3/2001, che ha modificato il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, e che avrebbe dovuto porre il nostro sistema amministrativo in un contesto di semplificato rapporto con l’utenza, si sono dimostrati in tutta la loro carica di incertezze negli interventi possibili da effettuare; e da porre a carico dei rispettivi bilanci dei livelli di governo interessati (in assenza di una effettiva applicazione del principio-base del c.d. “federalismo fiscale”.

Il tasso di litigiosità, sotto il profilo della lamentata invadenza di campo del Parlamento, da parte delle Regioni si è dimostrato talmente alto da sostenere la tesi, espressa da tempo da autorevoli esponenti del Governo, della necessaria riscrittura dell’art. 117 della Costituzione ([15]).

La situazione che si è venuta a creare non è di certo di quelle che inducono il Parlamento, finalmente, ad assumere quelle decisioni, soprattutto di natura finanziaria, che le stesse burocrazie statali (ministeriali) auspicavano da tempo.

E la stessa considerazione si può formulare – ancora oggi – avuto riguardo al sistema amministrativo delle Regioni.

Il leit-motiv della “valorizzazione delle risorse umane”, che gli economisti indicano ormai con il termine di “capitale umano” ([16]), si pone in tutta la sua evidenza fin dai primi articoli del provvedimento legislativo richiamato.

Dal loro corretto utilizzo, fatto da un management all’altezza della situazione, passano tutti i termini-simbolo della proposta Riforma.

Infatti, in capo alle diverse dirigenze, che hanno la responsabilità del conseguimento della massima soddisfazione possibile dei bisogni dell’utenza (carta dei servizi; definizione dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi), si individua, appunto, quella specifica responsabilità dirigenziale (quella del conseguimento di risultati) ([17]), che rientra, per alcuni aspetti, nel campo vasto della responsabilità di cui si devono far carico tutti coloro che, essendo alle dipendenze di una pubblica istituzione, sono da ritenere al servizio esclusivo della Nazione.

Oggi, in maniera del tutto atecnica, lo si utilizza per valutare in che modo sia stata portata avanti, fino alla necessaria conclusione (qualificandola come “un risultato” conseguito alla maniera di La Palisse), una qualsiasi opera pubblica, nell’ambito della riforma del “Codice degli appalti” predisposta dal Consiglio di Stato a ridosso dell’attuazione degli interventi del PNRR. Un modo assolutamente anomalo per affrontare il tema del dovuto rispetto dei termini di realizzazione contenuti, da sempre, nei piani e ancor di più nei programmi.

È nel contesto della “responsabilità dirigenziale” ([18]) che assume precipua rilevanza la capacità di guida esprimibile nei riguardi delle risorse umane, che il decisore politico ha ritenuto di assegnare all’inizio dell’esercizio finanziario a ciascuno dei centri di responsabilità in cui si articola la struttura di una qualsiasi istituzione pubblica (atto normativo pubblicistico rientrante nella competenza del decisore politico).

L’art. 1 del d.lgs. n. 29/93, rimasto immutato nella formulazione letterale fino alla versione del 2001 e oltre (d.lgs. n. 165), dispone espressamente che il complesso delle disposizioni del provvedimento va letto in funzione della realizzazione della “migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni”.

A tal fine, le pubbliche amministrazioni – nella veste di datori di lavoro – si devono preoccupare di assumere quelle misure (attivando i necessari processi decisionali) che assicurino “la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato” (obiettivo difficilmente raggiungibile…).

Gli istituti (o materie) richiamati (la formazione, lo sviluppo professionale, le pari opportunità, le condizioni di lavoro) rientrano ormai nell’alveo della contrattazione collettiva, costituendo oggetto di co-decisione al secondo livello di essa, quello della contrattazione integrativa.

Ma tra tali istituti, quello dello sviluppo professionale ha formato recentemente oggetto di discussione politico-istituzionale.

La Corte costituzionale, nelle diverse sentenze, ha inteso sempre confermare che “nell’accesso a funzioni più elevate, ossia nel passaggio ad una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema, come quello oggi in vigore, che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, deve essere ravvisata una forma di reclutamento” ([19]).

E così chiarisce il suo pensiero la Corte costituzionale: «Tale forma di reclutamento è perciò soggetta alla regola del pubblico concorso che, in quanto “meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci”, resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità, costituendo ineludibile momento di controllo, funzionale al miglior rendimento della pubblica amministrazione».

Quale influenza morale sono in grado di esercitare le riflessioni che si ha cura di richiamare sul comportamento di un datore di lavoro (pubblica amministrazione) e di rappresentanti sindacali dei dipendenti pubblici che si sono visti riconoscere, ai sensi dell’art. 43, 1° c., del d.lgs. n. 80/98, la titolarità a dettare le regole per l’accesso alle posizioni economico-professionali in cui si articola ciascuna area del pubblico impiego, secondo la nuova classificazione professionale?

Sicuramente molta, ma non tale da costringere le parti trattanti a riprendere la discussione sui termini della questione nel rispetto della procedura prevista dalla contrattazione (nuova trattativa → nuovo accordo).

La Corte costituzionale, in effetti, ha inteso legare l’imparzialità nella scelta dei “migliori” a coprire “i posti alti” (gerarchia professionale) delle istituzioni al fatto che così si persegue il miglior rendimento della pubblica amministrazione: tra professionalità e qualità dei servizi c’è da riscontrare una sostanziale corrispondenza.

In sostanza, «la giurisprudenza costituzionale è costante nel censurare norme che stabiliscono il passaggio a fasce funzionali superiori, in deroga alla regola del pubblico concorso, o comunque non prevedono alcun criterio selettivo, o verifiche attitudinali adatte a garantire l’accertamento dell’idoneità dei candidati in relazione ai posti da ricoprire, realizzandosi così una sorta di automatico e generalizzato scivolamento verso l’alto del personale» (sent. n. 218/2002).

È da ritenere corretta, a questo punto, la tesi secondo cui i processi selettivi interni, attuati in esecuzione di un intervento normativo che ha ampliato il campo della regolazione affidata alla contrattazione collettiva (art. 40, 3° c., d.lgs. n. 165/2001 → CCNL 1998-2001), hanno prodotto sostanziali effetti non certo positivi sull’organizzazione delle pubbliche amministrazioni:

a.      la dirigenza si ritrova ad essere supportata, nella quotidianità della gestione delle diverse funzioni/dei diversi servizi di competenza, da risorse umane la cui effettiva professionalità non è corrispondente al livello retributivo in base al quale esse vengono retribuite;

b.      la dirigenza, per evitare di incorrere in responsabilità, sarà indotta, presentandosi la situazione della qualità delle prestazioni offerte assai differenziata, a operare delle scelte di persona quando dovesse ritenere di (eventuale) delegare ad altri compiti di propria competenza ai sensi della legislazione più recente (l. n. 145/2002);

c.      la dirigenza si troverà orientata a proporre al decisore politico la programmazione di interventi formativi differenziati in relazione al fatto che alla copertura dei profili professionali “più alti” sono stati privilegiati, nel distorto sistema di selezione concordato, coloro che, senza essere in possesso del diploma di laurea, potevano vantare comunque una maggiore anzianità di servizio.

Gli esiti della esecrabile vicenda relativa – connessa all’applicazione dell’istituto delle selezioni interne – inducono, comunque, ad alcune riflessioni.

In primo luogo, sembra essersi verificato un sostanziale fenomeno di collusione tra chi (datore di lavoro) avrebbe dovuto dimostrare l’interesse a garantire alla dirigenza un supporto altamente professionalizzato in ragione dell’esercizio di poteri che con quella tali operatori avrebbero dovuto condividere, e chi (OO.SS.) si è dimostrato interessato a costruire tra i dipendenti il più largo consenso possibile (condividendo l’ampliamento dei vertici della pianta organica; consentendo ai dipendenti anche il “doppio salto” per il conseguimento di una qualifica superiore, in violazione di una specifica norma di legge).

In secondo luogo, c’è da prevedere, in tutte le pubbliche amministrazioni, anche quelle, quindi, che saranno chiamate a svolgere funzioni diverse da quelle attualmente svolte per effetto della diversa riallocazione che di esse si intenderà effettuare con la nuova versione dell’art. 117 della Costituzione, il generalizzato blocco di selezioni per la copertura di profili professionali “alti”; per i prossimi venti anni, i laureati delle nostre Università non avranno alcuna chance di coprire gli spazi di responsabilità adeguati alla cultura acquisita.

E sempre nel lavoro pubblico il sistema delle relazioni sindacali si atteggia né più né meno che come una finzione giuridica, una volta che ci si è resi conto che fin dal 1994 è la legislazione di bilancio a prefissare la politica dei redditi del settore pubblico e a configurare, nei riguardi dei livelli di governo diversi dallo Stato, una responsabilità amministrativa a carico delle dirigenze che non rispettino i vincoli legislativi destinati al contenimento della spesa corrente (Patto di stabilità interno; vincoli e divieti di assunzioni poste dalla legislazione speciale).

Ne consegue che il diritto del lavoro, che disciplina il sistema delle relazioni sindacali nel settore pubblico e i rapporti di lavoro degli operatori dipendenti da pubbliche amministrazioni, si atteggia come “speciale” rispetto al diritto del lavoro del sistema delle imprese private.

Sono i vincoli, sono i divieti posti annualmente dalla legislazione nazionale, a mezzo della c.d. “legge finanziaria” o di altre specifiche leggi ([20]), a tutela del sistema economico generale, a fare ricredere sia gli amministrativisti sia i giuslavoristi sull’effettiva portata delle innovazioni introdotte. E che sarebbero state utili alla Pa italiana, al centro cosi come alla periferia del sistema amministrativo.

La tutela del dipendente pubblico, sotto il profilo dei diritti che possono dallo stesso essere azionati, risulta, nei fatti, concretamente avvilita, depotenziata, ove solo si consideri che i contenuti della sentenza di un giudice del lavoro risultano condizionati dalla valutazione, che è chiamata a fare la Corte dei conti, della interpretazione fatta da parte degli originari sottoscrittori del testo del CCNL; e l’unica valutazione “positiva” sarebbe quella che non genera esborsi non previsti a carico dei bilanci pubblici (d.lgs. n. 80/98; d.lgs. n. 387/98: ora, art. 64 del d.lgs. n. 165/2001) ([21]).

Se la tutela dei diritti patrimoniali risulta, nella sostanza, limitata dal perseguimento di un interesse superiore (contenimento/riduzione della spesa di parte corrente), miglior sorte non si registra nell’area dei diritti sindacali dove la libertà di esercizio di sciopero risulta condizionata, come prevede la speciale legislazione vigente, dal concetto di essenzialità che ad alcuni servizi pubblici, anche se gestiti dal privato, si è attribuito ([22]).

 

In fondo, la tesi, per alcuni versi condivisibile, individua uno spazio di scelta per il Legislatore che verrebbe chiamato a decidere, secondo discrezionalità, «quali attività dell’amministrazione siano da sottoporre a regime pubblicistico e da “funzionalizzare” – attribuendo rilevanza giuridica sia all’attività nel suo insieme, sia ad ogni singolo atto, e sottoponendo a controllo rispetto all’interesse pubblico tanto gli atti singoli che l’attività d’insieme – e quali attività amministrative, anziché essere funzionalizzate, vadano rimesse alle regole del diritto privato, limitando il controllo di coerenza con l’interesse pubblico ad alcuni passaggi o snodi più rilevanti dell’attività privatistica ».

Nel parere reso, il massimo organo consultivo del Governo ha inteso sollecitare l’attenzione su una lettura quanto più possibile coerente dell’art. 97, 1° c., della Costituzione là dove si afferma che i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministra-zione: la concezione ormai consolidata era quella secondo cui l’attività strumentale-organizzativa delle amministrazioni riguardante sia l’organizzazione in senso stretto ([23]) che la regolazione e gestione dei rapporti di lavoro, risultando vincolata ai fini pubblici di imparzialità e buon andamento, doveva essere necessariamente “funzionalizzata” e, quindi, sottoposta al sistema dei controlli pubblicistici.

In tal modo, la funzionalizzazione dell’attività amministrativa delle pubbliche amministrazioni veniva qualificata come necessità “ontologica” di qualsiasi modello di organizzazione di pubbliche istituzioni.

A supporto di tale tesi veniva espressa la considerazione secondo cui “sarebbe (stato) difficile immaginare un sistema nel quale non siano riservate all’autorità (legislativa o amministrativa) le scelte fondamentali in materia di organizzazione ([24]) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità, conferimento ed esercizio delle pubbliche funzioni”.

Non possiamo non rilevare come questa considerazione impronterà i caratteri della legislazione successiva, e anche di quella più recente.

Il Consiglio di Stato ha, poi, richiamato l’attenzione sulla “diversità ontologica” tra impiego pubblico e lavoro privato, derivante dalla attribuzione ai pubblici dipendenti di funzioni pubbliche; è questa diversità che viene a determinare ostacoli “obiettivamente insuperabili e ineliminabili” alla privatizzazione dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni.

E prosegue: “… là dove esiste il potere discrezionale dell’amministrazione di organizzarsi, di assicurare il buono e imparziale andamento della gestione pubblica e, quindi, non solo di procedere alla scelta di coloro che vogliono e agiscono in suo nome e per suo conto, o di distribuire i funzionari negli uffici… ma anche di trasferirli per ragioni di opportunità, di distaccarli o comandarli presso altre amministrazioni nell’interesse dell’amministrazione di provenienza, di sospendere o interrompere il rapporto per scarso rendimento dell’impiegato o per altre carenze,…” non vi è spazio per “… adottare, sia pure parzialmente, la disciplina privatistica del lavoro … guidata dalle regole del mercato”.

  1. La legislazione nazionale posta a supporto delle nuove tecniche gestionali, fondate sui parametri delle tre “E” della “Dichiarazione di Lima”(1977)

Nell’arco di tempo che va dal 1993 al 1999, altre scelte – come si è detto – sono state fatte dal Legislatore nazionale.

 In particolare, quando venne alla luce il decreto legislativo n. 29/93, le dirigenze pubbliche, le quali vengono ad essere valorizzate nel loro ruolo per un duplice ordine di motivi (in quanto risulta sancita la loro indipendenza gestionale dal decisore politico, mentre la loro gestione viene sottratta all’influenza del consociativismo sindacale generato dalla legge-quadro sul pubblico impiego del 1983), si trovano a dover affrontare il tema del cambiamento organizzativo facendo leva sul potere che in tal senso è loro espressamente riconosciuto.

Alla cultura del rispetto della legge (parametro della legittimità) si viene, quindi, affiancando la necessità di riguardare l’attività amministrativa alla luce dei parametri dell’efficienza ([25]), dell’economicità ([26]), dell’efficacia ([27]).

Parametri che richiedono l’attivazione di un sistema di controlli interni in grado di dialogare, al momento opportuno, cioè quando si avvia il controllo indipendente di competenza, con la Magistratura della Corte dei conti; magistratura che si è limitata, per funzione di coordinamento, a elaborare ogni anno specifiche “Linee guida”, allegando uno specifico questionario, non in grado di dare conto della funzionalità effettiva di ciascun tipo di controllo attivato.

Ciò si verifica quando nel programma annuale dei controlli e delle indagini si sia deciso (in autonomia o su sollecitazione delle Commissioni parlamentari di Camera o del Senato) di effettuare indagini che coinvolgono le strutture interne – previste dal d.lgs. n. 286/1999 – preposte al “controllo di gestione” (analisi costi/rendimenti), o alla “valutazione delle politiche pubbliche” (Nucleo di valutazione/Servizio di controllo)

Ma non dobbiamo pensare che il potere di organizzazione (art. 5, d.lgs. n. 165/2001) assegnato sia dalla legge che dalla contrattazione collettiva, in un secondo momento, non risulti astretto tra i principi che pone la legge fondamentale di riforma stessa e le procedure da rispettare rinvenibili, appunto, nella normazione di fonte privatistica (contrattazione collettiva nazionale).

La legge di riforma, cui si è inteso fare riferimento, è naturalmente il decreto legislativo n. 29/93, confluito nel d.lgs. n. 165/2001, e successive modificazioni e integrazioni.

Ma ancor di più giova notare come le leggi di delega n. 421/1992(Cassese) e n. 59/1997 (Bassanini) risultino costellate da disposizioni che indicano scopi e criteri ai quali si deve informare il potere organizzativo della dirigenza (alta dirigenza/media dirigenza) nelle pubbliche amministrazioni.

Tali scopi e criteri, poi, sono valevoli anche quando il “potere organizzativo” si esplica nell’area della regolazione e della gestione del personale, indipendentemente dal regime giuridico (pubblicistico/privatistico) che disciplina quest’ultimo.

In definitiva, il “potere organizzativo” della dirigenza, che è chiamata a gestire l’organizzazione “bassa” e i rapporti di lavoro, trova – non avrebbe potuto essere diversamente – fondamento anch’esso nei principi di imparzialità e buon andamento dell’art. 97 della Costituzione.

Ed è alla luce di questa coerenza di ragionamento che vanno letti i vincoli e i criteri che si richiameranno.

In primo luogo, l’esercizio del “potere organizzativo” deve essere ispirato al miglior rapporto che si possa avere tra costi e risultati (produzione), e, naturalmente, tra obiettivi (previsti) e risultati (conseguiti), senza tralasciare il fatto che uno sguardo costante e attento debba essere dato alla spesa generata dai diversi fattori della produzione (e dal fattore lavoro, in particolare).

In altri termini, il potere organizzativo, che si esprime nella capacità di utilizzare al meglio le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili (in quanto assegnate loro dal decisore politico, la capacità di scelta in ordine alla loro entità come alla qualità si può ritenere nulla) deve risultare ispirato ai canoni individuati, che solo l’esperienza riuscirà a far emergere dopo che si avrà avuto cura, attraverso l’analisi degli effetti delle diverse politiche pubbliche, di far emergere regole utilizzabili in situazioni similari a quelle sottoposte a controllo gestionale.

La prescrizione normativa, che disciplina questo particolare aspetto del “potere organizzativo” della dirigenza, si può rintracciare nell’art. 2 della legge n. 421/1992.

Essa è stata richiamata, naturalmente, in una serie di disposizioni che, prima contenute nel testo del d.lgs. n. 29/93, si trovano sostanzialmente confermate nel d.lgs. n. 165/2001 (art. 1, 1° c., lett. a) e b); art. 2, 1° c., lett. a); art. 8, 1° e 2° c.; art. 18, 1° c.; art. 48, 7° c.; artt. 58-60), verificare periodicamente (rectius, monitorare) gli andamenti della spesa per il personale delle amministrazioni pubbliche.

A tal fine, la legge consente alla Magistratura della Corte dei conti di avvalersi, oltre che dei servizi di controllo interno o dei Nuclei di valutazione (dei dirigenti),, di esperti designati a sua richiesta da amministrazione e/o enti pubblici (in tale categoria di istituzioni vanno certamente ricomprese le Università degli studi…).

Purtroppo di controlli aventi ad oggetto tali analisi non sembra esserci traccia nei testi dei programmi di indagini da questa approvati…

È, appunto, diventato compito della Corte dei conti – ai sensi dell’art. 48, c. 7, del d.lgs. cit. – anche nelle sue articolazioni periferiche (Sezioni regionali di controllo) svolgere indagini in tale settore della amministrazione, compresa quella della istruzione e della alta formazione.

Un altro insieme di vincoli, che sono in grado di influenzare il potere organizzativo di cui si tratta, sono da individuare nel sistema dei principi e regole che dovrebbero presidiare, da un lato, l’utilizzo delle risorse umane, dall’altro, la determinazione dei fabbisogni di personale sulla base dell’analisi dei carichi di lavoro e, infine, la stessa politica della formazione permanente del personale.

Principi che risultano tratteggiati nella richiamata legge di delega e che, poi, risultano più dettagliatamente esplicitati in alcune disposizioni del d.lgs. n. 165/2001. In merito, si può richiamare l’attenzione sugli artt. 1, 1° c., lett. c); art. 6, 1°, 3° e 4° c.; art. 7, 4° c.; art. 36, 4° c..

Inoltre, una serie abbastanza articolata di disposizioni del richiamato d.lgs. n. 165/2001 si dimostra particolarmente attenta a impiantare principi e criteri in ordine ai diversi aspetti dell’organizzazione: si va dall’orientamento che essa deve avere nei riguardi dell’utenza e al pubblico interesse, alla opportunità che l’organizzazione delle istituzioni pubbliche sia articolata per funzioni omogenee e per obiettivi; ma si affronta anche il tema della necessità di eliminare le duplicazioni funzionali, di assicurare flessibilità nell’organizzazione degli uffici e del lavoro, così come di curare la semplificazione e l’intensificazione della comunicazione tra uffici, l’interconnessione informatica e la statistica tra le amministrazioni (si vedano, in merito, gli artt. 2, 1° c., lett. b) e c); art. 4, 1° c.; art. 11, 1° c.; art. 12; art. 35, 7° c.; art. 54).

Un altro gruppo di principi e di criteri di natura organizzativa è riferibile al tema della trasparenza e dell’imparzialità amministrativa, dato che la dottrina concorda sul punto che l’assetto organizzativo debba sempre qualificarsi come strumentale all’effettivo perseguimento di tali valori (sul punto, si vedano gli artt. 2, 1° c., lett. a) e d); art. 11, 1°,2 e 4 c.; art. 36, 3° c., lett. a), b) ed e); d.lgs. n. 286/99).

Inoltre, è da richiamare la serie di disposizioni che attengono allo sviluppo e alla promozione di quelle azioni positive poste a favore del principio di pari opportunità tra uomini e donne dipendenti da pubbliche istituzioni, e all’impiego flessibile che si deve fare dei dipendenti che per qualsiasi motivo vivano o si trovino in situazioni anche temporanee di disagio (art. 1, 1° c., lett. c); art. 7, 1° e 3° c.; art. 35, 3 c.; art. 57, cc. 1 e 2).

Recentemente, le modifiche apportate al “Codice di comportamento” ([28]) hanno inteso accentuare il potere di vigilanza (monitoraggio) che le dirigenze esercitano sui loro collaboratori nel nome (o all’insegna?) di un accentuato “sistema etico-professionale” che la privatizzazione aveva finito per rendere poco intellegibile e che, invece, avrebbe dovuto continuare ad essere il tratto distintivo del “lavorare nel pubblico” piuttosto che del “lavorare nel privato”.

Non c’è alcun dubbio che, essendo chiamate le diverse dirigenze ad applicare i principi e i criteri richiamati, il volto – e non solo il volto – della Pubblica amministrazione abbia assunto una diversa fisionomia.

Una nuova fisionomia dovrebbe essersi consolidata anche nei processi decisionali che le dirigenze (e anche i loro collaboratori) sono chiamati ad attivare nel loro ambito di competenza; ma non solo esse in ragione del nuovo ruolo che svolgono in rapporto con il decisore politico.

In questa nuova visione dell’attività amministrativa risulta, naturalmente, coinvolto anche il decisore politico; quest’ultimo è, infatti, impegnato a indirizzare l’attività privatistica dei dirigenti in materia di organizzazione e di gestione del personale (direttiva annuale; controllo dell’operato dei dirigenti a mezzo del Nucleo di valutazione dallo stesso decisore politico nominato).

Così come ugualmente rilevante è diventato, dopo le innovazioni legislative del 1997-1998, il ruolo delle organizzazioni sindacali, soprattutto nella sede in cui si assumono decisioni che hanno incidenza – e non può che essere così – sul potere organizzativo della dirigenza.

Infatti la dottrina – di fronte alla previsione delle diverse forme di coinvolgimento sindacale (informazione, consultazione, esame congiunto) contenute nella contrattazione collettiva (1998-2001, ed oltre) – ha ritenuto di trovare in tale disciplina un sistema di relazioni così ampio che non avrebbe più senso parlare dell’esistenza di un potere organizzativo del dirigente pubblico simile a quello del dirigente privato.

Nel tempo, con ogni probabilità, verrebbe a scolorirsi la figura del dirigente pubblico da intendere come manager.

E, tuttavia, pur in presenza di una versione odierna dell’art. 10 del d.lgs. n. 165/2001 diversa rispetto a quella del 1993, ci si trova impegnati, soprattutto a livello legislativo, a dover creare nuovi spazi decisionali per la dirigenza, così come per la vice-dirigenza ([29]).

Questo disegno politico va realizzato nella consapevolezza che verso un’interpretazione evolutiva del potere organizzativo del dirigente pubblico spinge il confronto sempre più serrato tra la cultura di chi risulta ancorato al rispetto formale della legge ([30]) e la cultura, invece, di chi intende rendersi conto dell’impatto che qualsiasi legge ha sulla comunità locale ([31]), sia in termini sociali che in termini di sviluppo economico (valutazione delle politiche pubbliche)

È stato, quindi, il quel certo periodo storico (tra il 1984 e il 1989) – con lo scopo di dare una risposta concreta al disegno politico che si sarebbe potuta perseguire l’obiettivo della efficienza, o dell’economicità, o della efficacia dell’attività amministrativa della P.A. – che ci si è iniziato a occuparsi dei bisogni individuali dei lavoratori e dell’inefficienza organizzativa in maniera più sistematica, impegnandosi a scoprire le cause del problema ([32]).

A tal riguardo il documento che costituisce il programma operativo del Progetto F.E.P.A. ( elaborato dal Dipartimento della Funzione Pubblica nel 1984) contiene alcune osservazioni che hanno lo scopo di illuminare tale aspetto «… accentuare le autonomie, il polimorfismo e il decentramento istituzionale e amministrativo costituiscono un vantaggio per il nostro Paese, che tende ad adeguarsi con minori difficoltà di altri paesi occidentali, ai cambiamenti rapidi… di questi anni.

Ma tale adattamento della P.A. sta avvenendo in modo fattuale e disorganico..

Si tratta ora di valorizzare le qualità individuali di laboriosità, di inventività e di adattamento presenti anche tra i dipendenti pubblici.

Si tratta di rendere sinergetiche tali individualità mediante tutta una serie di interventi concreti, fattibili e razionali che possano costituire il quadro di mobilitazione e di stimolo per rendere più efficiente e funzionale la P.A. e quindi il sistema Italia.

Inoltre una serie di fattori positivi comincia ad interessare la struttura, l’organizzazione, il clima della P.A..

Un primo elemento positivo è costituito dall’accentuato grado di scolarizzazione e di acculturamento delle qualifiche medio-basse, …

Un altro elemento favorevole è costituito dal fatto che alcune importanti amministrazioni pubbliche si stanno modernizzando e presentano una funzionalità ed efficienza abbastanza vicine a quelle dei paesi europei più avanzati…

Un ruolo importante …sta iniziando a svolgere il Dipartimento della Funzione Pubblica, …, in attuazione di quanto previsto dalla Legge-quadro sul pubblico impiego.

La Legge-quadro tende proprio a contrastare la deriva delle varie strutture della P.A., salvaguardandole ed anzi valorizzandone la loro autonomia funzionale…».

Coloro i quali ( soprattutto nel settore aziendale privato) hanno osservato le negatività che colpiscono i luoghi di lavoro hanno proposto, come rimedio alla situazione, di migliorare la qualità della vita sul posto di lavoro, di rinnovare i luoghi di lavoro e di ripensare ai metodi di lavoro al fine di pervenire eventualmente a una più forte corrispondenza tra ciò che le persone si aspettano dal loro impiego e ciò che essi realmente provano.

In sintesi, allora come adesso , il pensiero è da considerare rivolto alla individuazione di progetti innovativi capaci di realizzare situazioni di forte “benessere organizzativo” ([33]).

Sempre secondo il punto di vista di questi osservatori, il solo mezzo per conseguire questo obiettivo consisterebbe nel condurre sia il personale sia la direzione a valutare “congiuntamente” la natura dei problemi da affrontare e quella delle strutture organizzative in seno alle quali il lavoro si svolge.

La qualità della vita sul lavoro, così come la definiamo, è una “strategia sistematica di modificazione della organizzazione rivolta a conseguire un migliore equilibrio tra le attese dei lavoratori e delle diverse parti in causa, e le esigenze e gli obiettivi del sistema organizzativo”. In tale contesto, si deve creare quella banca-dati che si riveli utile per capire quale sia l’apporto del singolo operatore alla esecuzione di una legge,o di un grappolo di leggi…

Il che significa – per ciò che riguarda le amministrazioni pubbliche – esercitare un potere – quello “direzionale” – che contemperi le esigenze di chi presta la propria attività lavorativa al servizio della Nazione e le esigenze di vedere soddisfatte le esigenze peculiari di ciascun cittadino-utente.

Ma perché ciò ci realizzi, occorre che la Corte dei conti attenzioni non solo il dato finanziario (studio dei bilanci), ma scenda sul terreno – ben più utile per la gente comune – del come viene utilizzato il denaro dei contribuenti ponendo in prima linea l’analisi del costo-medio del servizio offerto.

Sarebbe pia illusione credere (e far credere) che ricorrere alla Corte costituzionale – per far cancellare una legge che non abbia copertura finanziaria – sia un rimedio alla “mala gestio”.

Esso va riguardato, invece, solo come un tassello (e il più debole tra tutti) della politica della sana gestione amministrativa (non finanziaria) su cui la Magistratura del buon andamento (fin dal 1982) deve potere incidere.

Mettendo da parte “la paura della firma” che, pur essendo una “finzione”, è stata presa a base di scelte prive di logica, e se mai a copertura di prolungati stati di inazione delle burocrazie assai attente, nei cambi di Governo, a valutare i nuovi orientamenti della classe politica che va al potere, ci si ritrova nella stessa situazione di allora (cioè a ridosso dell’anno 1994).

Con le burocrazie che sono riuscite a far approvare alla classe politica una legge che rinvia il sistema di controllo concomitante svolto dalla Corte dei conti, temendo di non poter più percepire l’indennità di risultato in quanto consapevoli di avere ritardato i diversi iter dei programmi di cui erano responsabili, si è riusciti là dove nessun riformatore era mai riuscito.

In tal modo sono venuti in evidenza – nel 1999,dopo che la cultura gestionale del Progetto “Funzionalità ed Efficienza della PA” aveva conseguito un soddisfacente grado di diffusione tra gli Enti Locali-, sistemi di controllo che sono risultati funzionanti, anche nel senso di essere capaci di porre in allerta il sistema.

1.1La elaborazione del Progetto FEPA (1984…)

Se si è riusciti a spiegare il ruolo di una Riforma (1993) – quella del pubblico impiego, spostata sul versante della economia aziendale -, non si può mancare di restituire alla memoria l’incidenza che ha avuto sulla cultura manageriale pubblica la messa a punto di un Progetto di vasta portata , realizzato nel nostro Paese in un arco di tempo abbastanza ristretto (dal 1984 al 1990,ed oltre). Progetto che vede coinvolti i vertici della Corte dei conti, e ,in particolare, il Segretariato Generale.

E della sua realizzazione occorre darne conto, in quanto tale vicenda amministrativa si dimostra capace di sfatare l’immobilismo culturale di cui darebbero affette le burocrazie nel nostro Paese.

Progetto che – occorre riconoscerlo – ha preso le mosse dalla semplicità disarmante dimostrata da un Ministro della Funzione Pubblica, Remo Gaspari ([34]), che aveva posto ai suoi collaboratori più diretti una domanda apparentemente ingenua:

“Da qualche tempo sottoscrivo, anche a tarda notte, contratti collettivi nazionali di lavoro dei diversi settori del pubblico impiego. E, leggendoli, noto che sono tre le parole che ricorrono più frequentemente nel testo: efficienza, economicità, efficacia…

Ma siete in grado di fornirmene il significato? E, soprattutto, come si fa a misurare ciascuno dei parametri di analisi della azione amministrativa?” ([35])

Si racconta come un silenzio assai imbarazzante si sia registrato tra i presenti.

Solo uno di questi, che era a capo della sua Segreteria tecnica osò accennare alle riflessioni fatte qualche tempo addietro dal prof. Massimo Severo Giannini, il quale ne aveva accennato, appunto, nel suo Rapporto presentato al Parlamento nel 1979 ([36]).

Un capitolo di tale “Rapporto” appare illuminante nella denominazione che Giannini decise di dargli: “L’unificazione delle metodologie di misurazione” ([37]).

A conferma del fatto, se ve ne fosse stato bisogno, che la dirigenza a quel tempo non possedeva la cultura per “misurare i risultati perseguiti”. E che, quindi, le dirigenze avevano trovato il modo di sottrarsi alla valutazione del loro operato, che avrebbe dovuto essere tutto orientato, secondo il Legislatore, a conseguire “risultati”, non altro.

Ma concluse facendo notare come – pur a contrattazione collettiva conclusa – ancora non si era in grado di effettuarne una misurazione adeguata dell’azione amministrativa – dell’operato della Pa – in quanto nessuna amministrazione era stata richiesta di farlo.

E ciò nonostante il fatto che in ogni Ministero risultasse istituito l’Ufficio “Organizzazione e metodi” (di lavoro) ([38]). Di come fossero organizzati e che informazioni producessero il Dipartimento della Funzione Pubblica non conosceva nulla.

A ciascun Capo del Personale, comunque, ci si sarebbe potuto rivolgere per avere notizie e informazioni sul punto. Questa fu la proposta sottoposta all’attenzione del decisore politico, il quale non mancò di porre la questione nella successiva riunione periodica del Consiglio Superiore della Pubblica Amministrazione (artt. 1 e 2 del d.P.R. 4 marzo 1976, n. 328).

È da questo episodio – che potrebbe apparire banale – che nasce l’esigenza di fornire una risposta adeguata a una esigenza (conoscere il vero contenuto logico di questi tre termini) che potrebbe apparire “teorica” ma che teorica non lo è mai stato.

Anche perché le riflessioni sottoposte al Parlamento, nel 1979, non lasciavano alcun margine di dubbio, cioè che sarebbe stato necessario avviare una serie di ricerche sul campo o, in alternativa, avviare un Progetto in cui sarebbero state coinvolte tutte le Istituzioni in quanto: “… La varietà delle tecniche di misurazione della produttività sinora seguite congiunta alle confusioni segnalate tra indicatori di produttività e altre cose, la poca concordia tra gli esperti di questa materia e la non sempre chiara separazione tra profili organizzativi e profili organizzativo-diagnostici, pongono l’opportunità di procedere a una ricognizione metodologica che abbia carattere generale…”

La risposta a questi dubbi si avrà, a dispetto di certa accademia, qualche tempo dopo per un concorso di fattori che ne hanno consentito la realizzazione.

Per comprendere le finalità e il metodo usato (compartecipazione/ coinvolgimento attivo delle istituzioni partecipanti) per dare esecuzione – da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica – alla sperimentazione del Progetto “Funzionalità e Efficienza della P.A.” (in sigla, FEPA), è sufficiente ricorrere alla lettura (rectius, all’analisi ex post) della copiosa documentazione prodotta dagli stessi responsabili nel corso di più di un quinquennio.

Documentazione presentata in Parlamento, che può essere arricchita dalle considerazioni svolte nelle Relazioni predisposte dalla Corte dei conti -Sezione Enti Locali (diretta . a quel tempo, dal Presidente Salvatore Buscema), nello stesso periodo storico (1984–1989).

Relazioni predisposte (in funzione “ausiliaria” nei riguardi del Parlamento) in esecuzione dell’art. 13, c. 4, del d.l. 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 51, ideata e predisposta dal Capo di Gabinetto – il prof. Sergio Ristuccia, consigliere della Corte dei conti, – dell’allora Ministro del Tesoro, prof. Nino Andreatta.

Ma è sul comma 5 di tale articolo che occorre richiamare l’attenzione, per diversi ordini di motivi di natura politico-istituzionale:

1.      il fatto che si attribuisca alla Corte dei conti – per la prima volta nella sua storia – il compito di curare un referto apposito (riguardante l’analisi dei consuntivi di Comuni con popolazione superiore agli 8.000 abitanti), richiedendo dati e informazioni ai Ministeri competenti;

2.      il fatto che la Corte sia chiamata a elaborare un piano annuale delle rilevazioni che intenda compiere e dei criteri che intende utilizzare in tale attività di indagine;

3.      il fatto che il referto abbia una cadenza annuale (confrontabilità nel tempo di traguardi raggiunti);

4.      il fatto che il controllo esercitato dalla Corte dei conti non abbia ad oggetto solo la “gestione finanziaria” di tali enti, ma che il controllo si estenda “al buon andamento dell’azione amministrativa degli enti”.

Un richiamo specifico che non sarà mai più ripreso nel testo della legislazione successiva. Bisognerà aspettare l’anno 1994 e, in particolare, la legge n. 20.

Quando la Corte Costituzionale viene chiamata a fornire il suo punto di vista in ordine al valore da assegnare alla richiamata normativa, la risposta si rivela non priva di alcune difficoltà.

  1. Il ruolo di supporto della Corte dei conti per la declinazione del principio del buon andamento.

Quando il Segretario Generale della Corte dei conti, il Consigliere Sergio Ristuccia, ricevette l’invito dal Dipartimento della Funzione Pubblica perché la Corte assumesse, nel contesto della “struttura di comando” che si riteneva necessario mettere a punto per fini di governo del Progetto “FEPA”, un ruolo di primo piano, egli non è sembrato avere molti dubbi sulla bontà dello stesso.

Da tempo, da quando aveva potuto leggere in presa diretta il testo della Dichiarazione di Lima (1977), aveva coltivato nel cuore – come nella mente – l’idea di far conseguire alla Corte dei conti italiana, e ai suoi Magistrati di punta, quel traguardo culturale delineato, con grande chiarezza, dal prof. Massimo Severo Giannini, quello di integrare il controllo di legittimità sugli atti con quello sul “buon andamento” della gestione amministrativa.

E l’avere introdotto questo specifico riferimento nell’art. 13, c. 5, della legge n. 51 del 1982, lo soddisfaceva fino ad un certo punto riscontrando, tra i Magistrati addetti alla “Sezione Enti Locali”, da qualche anno in azione, un atteggiamento che si presentava come di disinteresse nei confronti di tale attribuzione, dato che se essa avrebbe dovuto avere come interlocutori i burocrati degli Enti Locali (con popolazione superiore agli 8.000 abitanti), avvertiti come “lontani” e “incapaci di auto-analizzarsi”.

Nel frattempo, si era avuto modo di sperimentare una situazione difficile nella comunicazione alla Sezione dei rendiconti da parte degli Enti Locali, tanto che il primo referto si era limitato a dare notizia dei ritardi nella trasmissione di tali documenti contabili.

D’altra parte, era opinione diffusa tra la Magistratura contabile che non competeva ad essa fornire un contributo tecnico alla costruzione dei parametri della efficienza, della economicità, della efficacia dei processi decisionali…

Ora, il fatto che fosse la P.A. a dare dimostrazione della volontà di trovare una via tutta propria per dare contenuti ai richiamati tre parametri, costituiva una novità in assoluto; e si rivelava una occasione interessante per la Corte dei conti che avrebbe dovuto svolgere – come da richiesta avanzata – una azione di affiancamento nei riguardi dei “ricercatori” delle diverse Amministrazioni impegnati in tale opera.

Si dimostrava, in questo senso, assai allettante il disegno istituzionale definito nel documento finale del Progetto: «La Commissione centrale (organo con funzione di guida) operante presso il Servizio VIII del Dipartimento della Funzione Pubblica, sarà composto da 1. rappresentanti delle Amministrazioni e degli Enti interessati al progetto… 2. alcuni dei magistrati, dirigenti e funzionari più qualificati e motivati tra quelli che hanno collaborato alla predisposizione del progetto… 3. gli esperti coinvolti nella predisposizione del progetto… 4. esperti designati dalle organizzazioni sindacali…».

Del principio del “buon andamento” – tra la Magistratura contabile – si discuteva nei momenti culturali (in occasione di convegni, seminari, incontri di studio…), da essa stessa promossi, ma senza alcun costrutto, cioè senza che ci si proponesse in alcun modo di assumere una posizione pro-attiva nei riguardi di una burocrazia inerte o, comunque, ritardataria nel dare esecuzione alla legge.

La richiesta di partecipazione al “gruppo di comando” del Progetto FEPA, elaborato e proposto da un organismo governativo (Dipartimento della Funzione Pubblica) risultava essere accoglibile (e anche accettabile) per la sussistenza di un preciso appiglio normativo riscontrabile, ormai, nel contesto dell’ ordinamento nazionale: l’art. 13, c. 5, del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 51, recante disposizioni in materia di finanza locale; finanza locale che trattava il 75% dell’intera spesa pubblica…

La norma ora richiamata così recita(va): La Corte riferisce annualmente al Parlamento, entro il 31 maggio, i risultati dell’esame compiuto sulla gestione finanziaria e sul buon andamento dell’azione amministrativa degli enti.

Disposizione che, (qualche anno dopo – sempre su impulso di Sergio Ristuccia – con la legge 13 maggio 1983, n. 197 recante la disciplina della “Ristrutturazione della Cassa Depositi e Prestiti…) rivedremo riprodotta con il pieno e integrale recupero delle espressioni già usate: Entro il 31 luglio successivo la Corte riferisce al Parlamento sui risultati dell’esame compiuto, e sulla gestione e sul buon andamento della gestione amministrativa. (art. 12, c. 4, legge cit.)

Ma Sergio Ristuccia non si attarda a leggere il corposo volume che viene allegato alla nota di invito. Come è suo solito, preferisce delegare ad altri la lettura e lo studio dei vari documenti, ma richiedendo che l’incaricato gli faccia una sintesi dei punti più interessanti.

A chi, dei Magistrati addetti al Segretariato Generale, sarebbe dovuto toccare l’onere di tale impegno?

La decisione era già presa … nonostante le riflessioni svolte in una riunione di lavoro convocata ad hoc. Infatti, lo studio viene assegnato al Magistrato addetto che si occupa – nel contesto dello stesso Segretariato – della gestione della formazione.

Nell’arco di una settimana, dopo averne discusso con il Magistrato addetto, Sergio Ristuccia decide di condividere quella che si presentava come una avventura intellettualmente intrigante e che costituiva, nella sua essenza, una sfida culturale all’Accademia.

Dal punto di vista della politica istituzionale della Corte dei conti, tale Istituzione avrebbe dovuto costituire, anche per le connessioni che si sarebbero venute a creare con l’attività della Sezione Enti Locali (il dover riferire sul buon andamento dell’azione amministrativa significava riferire sullo stato di esecuzione di piani o programmi), un punto di riferimento per tutte le Amministrazioni che via via aderivano al Progetto.

La richiesta di partecipazione al Progetto FEPA diventava una prova per la Corte dei conti, una prova che si sarebbe dovuto affrontare con competenza ma senza un coinvolgimento diretto; e questo si sarebbe potuto realizzare fornendo le coordinate culturali del richiesto rinnovamento culturale delle istituzioni, soprattutto di quelle locali.

Questo il pensiero manifestato dal Segretario Generale della Corte dei conti, attento a non condurre l’Istituzione su un terreno che si sarebbe potuto rivelare pieno di insidie.

D’altra parte, se la stessa P.A. ha riconosciuto che il tempo di dare sostanza di contenuti al metodo della “misurazione dei risultati” di qualsiasi azione amministrativa posta in essere, avrebbe dovuto essa stessa, per il tramite dei suoi operatori sul campo, a fornire gli strumenti necessari; e, in prima battuta, individuare il complesso degli indicatori (o indici) non finanziari utili allo scopo.

Perché in fondo di questo si trattava…dopo aver uniformato il complesso dei procedimenti amministrativi se ne sarebbe dovuto – di ciascuno di essi – misurare i tempi (di effettiva conclusione), misurare i costi (per unità di prodotto o di servizio reso), esaminare i modi con i quali i procedimenti risultavano essere stati attivati.

Chi, meglio di qualsiasi altro burocrate, avrebbe potuto guidare la P.A. verso un campo mai arato? E in una direzione che avrebbe potuto essere considerata sbagliata? Questi, tra l’altro, risultava preposto a una Servizio del Dipartimento che aveva attribuzioni ben puntuali e chiare da svolgere.

Sergio Ristuccia conosceva bene il promotore della iniziativa, ne conosceva il carattere caparbio, ne conosceva le precedenti professionalità acquisite, e soprattutto la sua vasta conoscenza nel campo della matematica applicata.

Sono state tutte analisi fatte in maniera tale da valutare i pro e i contra di una presenza che avrebbe dovuto essere discreta ma sostanziale della Corte dei conti in un Progetto mai elaborato prima. Progetto che presentava caratteri assolutamente inediti; e, tra questi, l’avere immaginato un coinvolgimento attivo degli operatori pubblici.

La presenza di un rappresentante magistratuale della Corte dei conti fu, quindi, definita, ricadendo la scelta sul Magistrato addetto, all’interno del Segretariato Generale, alla gestione della formazione permanente.

È rileggendo, appunto, il SOTTOPROGERTTO 5 – Aggiornamento professionale che il Segretariato Generale della Corte dei conti dichiara la sua disponibilità al Ministro della Funzione Pubblica di voler fornire un contributo fattuale per la realizzazione di questo modulo, che aveva un ruolo-chiave nel contesto del Progetto.

Infatti, risultavano assai convincenti le considerazioni che sul punto il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva avuto cura di esporre: «Gestire un cambiamento nei modi dell’azione amministrativa richiede certamente un adeguato substrato culturale e conoscenze professionali inerenti ai mezzi di cui ci si intende servire».

Una esperienza che trova nelle Organizzazioni sindacali comportamenti più o meno tiepidi, anche perché lo studio si concentra sulla Nuova Tecnica Gestionale 2, quella della verifica dei carichi di lavoro.

Ed è su questo aspetto che concentra l’attenzione Emidio Valentini (come rivela il suo intervento dal titolo “Analisi, valutazione ed attuazione dei carichi di lavoro nel Progetto FEPA, riportato nella “Lettera sindacale” n. 3/1988, pubblicata dalla CISL).

Si ritiene di dover sottolineare la parola “modi” usata; essa ricomparirà nel 1993-1994 nel testo normativo della “Grande Riforma” che riguarderà la funzione di controllo della Corte dei conti, quando, all’art. 3, c. 4, frase seconda, si richiederà alla stessa di accertare “i tempi, i modi e i costi dell’azione amministrativa”, quell’azione che, nella quasi totalità dei casi, risulta delineata nei piani e nei programmi che il d.lgs. n. 165 /2001 assegna alla approvazione dei decisori politici.

Il filo rosso, quindi, che lega a un disegno progettuale il pensiero umano (quello che si nutre di sola teoria senza essere capace di produrre cambiamenti dell’agire), comincia ad intravvedersi.

Ciò che convince il Segretario Generale della Corte dei conti è il fatto che il Progetto FEPA scandisce in maniera puntuale il complesso degli interventi formativi che si sarebbero realizzati nel corso dei cinque anni di sua realizzazione.

Si legge, infatti, «Nel più vasto obiettivo della creazione di una cultura del cambiamento si specificano obiettivi differenziati e graduati a seconda del personale destinatario.

a)     Per l’alta dirigenza verrà compiuta un’opera di apertura culturale sulle problematiche che investono ai nostri giorni il lavoro d’ufficio, per consentire loro di proporsi quali avveduti promotori del cambiamento;

b)     Una formazione più tecnica e puntuale si rivolgerà alla dirigenza di base e ai quadri intermedi che saranno chiamati ad agire quali diretti operatori del cambiamento;

c)      Per il restante personale verranno approntati corsi a livello tecnico-pratico con elementi di cultura organizzativa ed informatica, tali da renderli professionalmente dotati e motivati ad operare in un ambiente tecnologizzato.».

Alla luce di tali obiettivi – esposti con semplicità – il Segretario Generale assume una decisione: consentire una presenza operativa nella realizzazione degli interventi formativi destinati al personale di cui ai due primi punti del Sotto-progetto richiamato.

Con una raccomandazione: che vi fosse stato l’impegno, da parte del Magistrato designato, a porre in evidenza, in ogni occasione, l’interesse della Corte dei conti a voler vedere conclusa nel migliore dei modi la “sperimentazione” in cui il Dipartimento della Funzione pubblica diceva di essere impegnato, di volersi impegnare nell’interesse esclusivo dei cittadini ([39])

D’altra parte, che ci si ritrovasse a navigare in acque del tutto sconosciute era stato messo in conto dal suo ideatore il quale, per evitare qualsiasi interferenza esterna (e soprattutto accademica), aveva posto quale condizione fondamentale per la sua realizzazione che al Progetto non fosse destinato alcun finanziamento pubblico. Una scelta questa apprezzata dal Segretario Generale della Corte dei conti.

Le osservazioni che è dato di leggere non lasciano alcun dubbio; esse sono rintracciabili nel SOTTOPROGETTO n. 3 – Controllo sulla efficienza e l’economicità della azione amministrativa – Indicatori di produttività: «…si può dire che la P.A. viene attualmente avvertita come un “sistema inefficiente” sia dai cittadini sia dagli stessi operatori pubblici, che, nel tempo, hanno visto progressivamente svilito, nella pubblica opinione, il loro ruolo.

Obiettivo del sotto-progetto è tendere alla ricomposizione dei due Sistemi (Sistema della PA – Sistema della società esterna), mediante l’adozione di un articolato sistema di controlli sull’efficienza esterna dell’“azione amministrativa”, ovvero sulla capacità della stessa di soddisfare gli effettivi bisogni espressi dalla società…».

È del tutto evidente il fatto che il tema dei “controlli interni” non poteva (e non avrebbe mai potuto) non interessare la Corte dei conti.

Un tema (ed ecco il valore delle parole-simbolo) che sarà, ancora una volta, ripreso dalla “Grande Riforma” del 1993-1994, a ridosso di quel fenomeno giudiziario denominato “Mani pulite” che denuncia, con i suoi interventi, la disattivazione, ad opera dei decisori politici, del funzionamento dei controlli interni, da quelli di legittimità a quelli ragionieristici, ovvero di regolarità contabile.

Infatti, a tale situazione critica si ritiene – da parte dell’accademia – di porre rimedio con la previsione contenuta nell’art. 3, c. 4, prima alinea, là dove richiede alla Corte dei conti di verificare, oltre naturalmente la legittimità e la regolarità delle gestioni, anche (rectius, contestualmente) “il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione”.

Funzionamento che si può tradurre nella parola “funzionalità”, in quanto essa si può verificare richiedendo – il Magistrato istruttore – informazioni sul livello di professionalità posseduto dai controllori (peraltro, nominati dalla istituzione controllata…), valutando la precisione dei rilievi formulati, notando l’assiduità posta nell’opera del controllo…

Questa attività può portare a formulare un giudizio anche negativo sul modo di svolgere la propria funzione (controllo di primo livello) da parte di tali organismi ([40])

E, ovviamente, sono diversi i criteri usabili per verificare la funzionalità dell’operato di un Collegio dei revisori, di un Ufficio che monitora la produttività del singolo o di apparati, di un Nucleo di valutazione quando dovrebbe supportare le dirigenze nella elaborazione di piani e programmi e a valutarne l’efficacia sullo stato degli utenti…

Tutto ciò presuppone che nei programmi annuali di controllo siano previste indagini aventi ad oggetto differenti analisi, differenti valutazioni.

Da questa presa di posizione – che non sembra essere stata presa con la dovuta convinzione e con la giusta prospettiva – discende una considerazione: anche la parola “controlli” o “sistema dei controlli interni” diventa per la auspicabile “cultura del buon andamento”, che il Progetto FEPA si riprometteva di diffondere tra gli operatori della PA, e a tutti i gradi della sua organizzazione, una parola-simbolo.

Ma nell’attività di referto, svolta dalla Sezione Enti Locali della Corte dei conti nei riguardi del Parlamento, con riguardo allo stato di esecuzione del Progetto FEPA, non si ritrova esplicitata alcuna attenzione nei riguardi di questo tema; un primo esempio lo si ritroverà – dopo un periodo di analisi orientato a raccogliere dati e informazioni utili allo scopo – nella Relazione dell’anno 1989, in cui, in allegato, viene prodotto un referto sullo stato di esecuzione dei Piani sul trasporto pubblico locale ([41]).

Solo in questo momento (a distanza di poco più di nove anni dalla sua istituzione…) la Sezione Enti Locali (Magistratura del buon andamento) si avvia a controllare atti aventi natura programmatoria e, come tali, capaci di evidenziare lo stato di esecuzione di leggi sia di fonte nazionale sia di fonte regionale.

E per tale via, la Corte dei conti si avvia ad assumere i contorni di una Istituzione superiore di controllo che presta attenzione alle esigenze dei cittadini.

E lo fa richiamando alla discussione un tema che aveva molto interessato un teorico – ma non troppo – come lo era stato il prof. Massimo Severo Giannini.

Questione – quella di svelare gli effetti di certe scelte politiche – che aveva già da tempo interessato, nel campo delle aziende private, gli studiosi di economia aziendale o gli stessi giuristi d’impresa interessati a misurare la soddisfazione dell’utenza e a ricercare i modi migliori per fidelizzarla ai suoi prodotti o servizi.

La partecipazione attiva della Corte dei conti al Progetto FEPA si è rivelata vincente, per diversi ordini di motivi:

  • ha avvicinato la “Magistratura del buon andamento” alla realtà amministrativa del sistema degli Enti Locali, alla sua complessità, al fatto che sussistono forme di forte dipendenza dal bilancio di Enti sovraordinati (Stato; Regione; Provincia);
  • ha preparato il terreno all’attecchimento, nel tessuto burocratico, dei principi che la legislazione del 1993-1999 (D.lgs. n. 29/93; Leggi n. 19 e 20/94; D.lgs. 286/99) avrebbe indicato come coessenziali allo sviluppo del controllo indipendente esterno a fronte di un sistema di controlli interni;
  • ha aperto il controllo alla analisi di programmi connessi alla attuazione di leggi di spesa con una visione multilivello delle stesse; visione che è stata solo confermata dall’art. 11 della legge n. 15/2009, allorché venne richiesto alla Corte dei conti di segnalare i ritardi/le inadempienze dei diversi livelli di governo nella esecuzione delle leggi (dalla mancanza di trasferimenti di risorse alla inerzia mantenuta nel dare alle risorse ricevute la finalizzazione di legge, al denunciare la distorsione di fondi ricevuti per opere non previste dalla legge di finanziamento).

Si può, comunque, affermare come il Progetto FEPA abbia coperto un arco temporale quasi decennale, coinvolgendo migliaia di dipendenti pubblici, e quindi centinaia di istituzioni, soprattutto locali.

Istituzioni locali (e non solo) che hanno potuto dare seguito agli impegni di legge avendo partecipato attivamente alla realizzazione del Progetto in questione. E che ancora oggi ne risultano beneficiari .

Nel settore pubblico, si verifica – ad opera dell’Accademia e, non certo per un rigurgito di auto-innovazione sollecitato dal basso – che, al posto di questi Organi di auto-controllo, con l’art. 20 del d.lgs. n. 29/93, le Amministrazioni (tutte) devono ricorrere all’instituendo “Servizio di controllo interno”, poi ridenominato “Nucleo di valutazione”, la cui composizione è di natura collegiale, preferendosi nella scelta dei componenti personale esterno (accademico e non) in possesso di specifica conoscenza nelle discipline della economia del lavoro, della statistica, dell’economia aziendale, della sociologia, del diritto del lavoro…

Per tale via, una “cultura teorica” (di stampo aziendalistico, per giunta) verrebbe a governare un sistema che non ha saputo auto-amministrarsi – ormai da tempo – su basi scientifiche (con il ricorso alla analisi di dati auto-prodotti). Ma che rimane (e continua a rimanere) il campo della Magistratura del Consiglio di Stato, dei TAR, della Corte dei conti (in minima parte…) ([42]).

Si tratta, comunque, di un “innesto forzato” proveniente da lontano… Una novità assoluta (importata dall’ordinamento americano) che viene accolta, almeno nell’ambito dei Ministeri, con grande sospetto; il sospetto di dover rendere conto – da parte di ciascun direttore generale – dell’operato a “estranei” all’Amministrazione, e di perdere qualsiasi contatto diretto con il decisore politico, l’unico in grado di assumere decisioni capaci di risolvere i problemi legati alla programmazione, alla gestione, al controllo del “capitale umano”.

E la Corte dei conti? Come si viene a configurare la sua presenza nel nuovo contesto ordinamentale?

  • L’influenzabilità del sistema dei controlli interni da parte del decisore politico. L’esigenza di affidare il controllo indipendente esterno alla Corte dei conti,in Italia.

L’analisi politologica che è stata svolta da eminenti studiosi, ci conferma nel fatto che un po’ del futuro di questa innovazione istituzionale – di cui la Corte dei conti è diventata destinataria, nel nostro Paese – ce l’hanno in mano gli elettori. Perché?

L’esperienza formatasi in terra d’oltralpe ci conferma, d’altronde, della influenzabilità che il sistema dei controlli interni può subire da parte del mondo politico; quest’ultimo, poi, dovrà evitare di continuare a decidere basandosi poco sulla conoscenza dei fatti, poco sull’analisi dei dati; molto lasciandosi condizionare dal messaggio “gridato”, dal messaggio, assai spesso fuorviante dei commenti giornalistici.

La metodologia con cui si legge ancora la realtà, appena richiamata, potrebbe venire riposta e di tale comportamento lo stesso Istituto fornirà, o potrebbe essere indotto a fornire, la più ampia giustificazione.

Si tratta, ancora una volta, di fare scelte di libertà, ancorate all’analisi dei dati, alla lettura ravvicinata dei comportamenti tenuti dai diversi livelli di governo (multilevel governance).

Solo i dati e le informazioni raccolti con metodo, infatti, aiutano realisticamente la classe politica – sia che diriga o che stia all’opposizione – a esplicitare obiettivi, a graduare priorità nelle scelte da fare, nel valutare quali scelte si dimostrano, anche per la “memoria storica” che li dovrebbe sorreggere, le più congrue a soddisfare i bisogni dei cittadini e delle imprese (a volte confliggenti tra loro, ma ambedue rilevanti). E ciò in considerazione del fatto che la politica è di per sé ponderazione di interessi collettivi ([43]).

In sostanza, occorre che gli interlocutori politici siano in condizione di maneggiare gli strumenti della analisi economica. E questa non si fonda altro che su dati, espressione della realtà amministrativa.

La Corte dei conti, nel suo quotidiano lavorare, richiama tutti, i cittadini così come i decisori politici, alla realtà della gestione politico-amministrativa; ed è tenuta a svolgere questa funzione fondamentale, di grado costituzionale, studiando la realtà amministrativa, indagandola, cercando di scoprire anche i nessi tra gli avvenimenti, tra le decisioni assunte.

L’ancoraggio al vivere quotidiano, al fluire forse anche routinario, dell’azione amministrativa evita le fughe in avanti della c.d. “politica gridata”, e impegna la classe politica a dimostrare saggezza e professionalità nella gestione del pubblico denaro.

La raccolta dei dati (come delle informazioni), che riguardano il quotidiano andamento degli uffici pubblici, è oggi, attraverso una nuova lettura dei documenti contabili, denominati “di bilancio”, di competenza della Corte dei conti: ambedue queste operazioni – la raccolta e la lettura dei dati – si dimostrano necessariamente propedeutiche per fare, più in là, valutazione delle politiche pubbliche ([44]).

Si può affermare, in sostanza, che la” valutazione delle politiche” pubbliche “ha per oggetto la ricerca se i mezzi giuridici, amministrativi o finanziari utilizzati permettano di produrre gli effetti attesi da questa politica e di raggiungere gli obiettivi che le sono stati assegnati” (Jean-Pierre Nioche).

La valutazione delle politiche pubbliche, come strumento di analisi delle scelte fatte da un governo al potere, può a quest’ultimo non riuscire gradita (ed è ciò tanto più vero quanto più il giudizio formulato dall’organo di controllo indipendente assume i toni della negatività… o della prudenza).

Ma esso si dimostra, comunque, indispensabile sempre che ci sia un minimo comun denominatore a base della politica svolta da chi sta al governo e di quella gestita da chi sta all’opposizione: esso può essere rintracciato, identificato nell’obiettivo di ridurre gli sprechi che la gestione burocratica della spesa pubblica di per sé comporta.

Se la Magistratura del buon andamento riesce nel suo intento – quello di dimostrare che altre istituzioni hanno sopportato una spesa minore – l’intento persuasivo sarà massimo; e le misure di correzione potranno essere assunte. O, comunque, valere per situazioni simili in futuro.

In fondo, se governare è un’arte, anzi l’arte più difficile, così come dicevano i Greci, essa non si può apprendere per via taumaturgica, ma attraverso delle prove, facendo tesoro delle scelte fatte (precedenti) e, in particolare, di quelle che, oltre a rispettare la sostanza della legge, si ispirano a criteri di economicità e di efficienza.

“Più specificamente, lo scopo esplicito delle valutazioni politiche (così come delle persone o delle organizzazioni, n.d.a.) è finalizzato… ad aumentare l’efficacia dei servizi pubblici attraverso gli strumenti del controllo di gestione e del calcolo dei costi” (Jean-Pierre Nioche).

La legge 14 gennaio 1994, n. 20 (in particolare, l’art. 3, 4° c.) assegna la funzione, tra l’altro, alla Corte dei conti di accertare, anche in base all’esito di altri controlli (cioè, oltre a quelli effettuati dalla stessa Istituzione anche in proprio), la “rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge”; nel fare questo tipo di controllo (il più complicato di tutti gli altri… messi insieme), deve valutare comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa posta in essere, naturalmente da istituzioni simili (AUSL con AUSL, Comune di piccole dimensioni con Comune sempre di piccole dimensioni, un Istituto scolastico con un Istituto scolastico…).

Nel fare audit/accounting, quindi, l’Istituto è tenuto a esprimersi con tempestività, non contraddicendo al suo ruolo più antico sulla legittimità degli atti posti in essere, nel corso dell’esercizio finanziario, dal dirigente che sia responsabile della gestione affidatagli o in cui, di fatto, si sia ingerito (valutazione che, fra l’altro, può essere fatta anche in maniera concomitante, cioè senza dover più attendere la presentazione del rendiconto o della contabilità speciale, utilizzando, all’uopo, i poteri investigativi di cui all’8° c.); nonché sulla regolarità contabile della gestione stessa, nel senso della verifica del rispetto delle norme contabili che risultano a quella data vigenti.

Ma l’Istituto è chiamato, annualmente, nei settori e nelle materie (definiti ai sensi del richiamato art. 3, 4° c.) ad esprimersi a mezzo di una relazione di fine anno, o anche di relazioni specifiche in corso d’esercizio, o/e anche, più semplicemente, con l’invio di osservazioni all’amministrazione sottoposta ad accertamento.

Le relazioni, che devono contenere gli ‘esiti del controllo eseguito (nei suoi aspetti di legittimità, regolarità, di valutazione dell’intervento legislativo assoggettato ad esame sulle “comunità”) devono essere comunicate

a) al Parlamento e ai consigli regionali (c. 5°),

b) alle amministrazioni interessate (in quanto le burocrazie sono le naturali esecutrici di piani/programmi approvati dai decisori politici).

Queste ultime sono tenute a comunicare alla Corte e agli organi elettivi le misure conseguenzialmente adottate ([45]).

Non è chi non veda come l’intrigante funzione di svolgere azione di consulting ([46]), come conseguenziale (o connaturale?) a quella di audit ([47]), da parte della magistratura contabile in ordine alla gestione delle risorse finanziarie assegnate a una certa istituzione richieda l’acquisizione, da parte della stessa dirigenza assoggettata a controllo di funzionalità, di una spiccata cultura dei dati, delle informazioni.

3.La formazione delle dirigenze sul campo, realizzando il Progetto FEPA. Accumulo di esperienza manageriale e sua diffusione.

Non si può dire che il percorso fatto dagli operatori che hanno partecipato al Progetto FEPA non sia tornato utile.

Lo si può riconoscere attraverso il riscontro delle definizioni che l’opera intellettuale è riuscito ad elaborare per dare un significa proprio alle “parole simbolo”, e a farle diventare patrimonio culturale delle burocrazie italiane.

Così l’efficienza, qualificata come “il rapporto tra risultato raggiunto e risorse impiegate per ottenerlo”, risulta costituita dal rapporto tra “obiettivo prefissato” e “risorse impiegate per raggiungerlo”. (Relazione al Parlamento sullo stato della PA, 1989).

Mentre la prima definizione sottolinea gli aspetti “gestionali”, la seconda si riferisce in modo particolare agli aspetti “istituzionali”.

In entrambe le definizioni si tratta di un rapporto in cui, comunque, viene evidenziato l’ottimale utilizzo delle risorse: un servizio, una attività, un prodotto è tanto più efficiente quanto più basso è il rapporto tra quantità di servizio reso, di attività svolta, di prodotto elaborato e quantità di risorse (utilizzate a tal fine).

La formula matematica è, dunque, la seguente:

Ei = P/R, in cui Ei = Efficienza; P = Prodotto; R = Risorse.

In tale contesto, risulta utile, al fine di sgomberare il campo da false rappresentazioni, distinguere tra “efficienza istituzionale” ed “efficienza gestionale”.

  1. Efficienza istituzionale

L’efficienza istituzionale è quella che fa capo a quegli organi che, in una determinata istituzione (privata o pubblica che sia), hanno la “responsabilità politica” della istituzione.

Esempi:

  1. l’efficienza vista dal Parlamento nell’approvare una legge che istituisca nuovi servizi, che decide risorse da destinare ad investimenti, …
  2. l’efficienza riferita ad una giunta comunale, provinciale, regionale, etc.

L’efficienza istituzionale si dimostra essere una efficienza di obiettivi; è soprattutto una efficienza ex ante.

La formula generica dell’efficienza, se riferita alla efficienza istituzionale, può essere meglio espressa con:

Eist = O/R,

in cui i valori di Obiettivi e di R(risorse) sono variabili modificabili, di massima ed entro certi limiti, da parte dei responsabili istituzionali.

La quantificazione dell’efficienza istituzionale risulta oggettivamente difficile, soprattutto nelle istituzioni pubbliche. A ciò va aggiunto che a livello istituzionale non è facile distinguere l’efficienza dall’efficacia.

Comunque, averla concettualmente distinta da quella gestionale, non solo facilita una maggiore comprensione ed una più corretta valutazione di quest’ultima, ma costituisce anche un ottimo strumento metodologico per la delimitazione della responsabilità fra politica e amministrazione nelle istituzioni pubbliche.

L’efficienza istituzionale – a conclusione delle analisi fatte nel corso della attuazione del Progetto FEPA – è quasi sempre il rapporto tra obiettivo programmato e risorse finanziarie destinate a realizzarlo.

Si ponga mente alla “efficienza istituzionale” nel caso di rapporto fra gli interventi a favore di zone colpite da un sisma e le risorse previste dal bilancio dello Stato per tali interventi.

Si ponga mente alla efficienza istituzionale nel rapporto fra nuovi prodotti realizzati in una industria e somme investire per realizzarli.

La caratteristica principale della “efficienza istituzionale” è che essa è essenzialmente una efficienza valutata in termini di costi (sarebbe difficile, peraltro, una valutazione più disaggregata o di tipo organizzatorio come quella relativa al solo personale, o alla sola tecnologia).

  • Efficienza gestionale

L’efficienza gestionale è quella che fa capo a quegli organi che, in una determinata istituzione, hanno la “responsabilità gestionale” dell’istituzione.

Esempi:

a)     l’efficienza riferita al direttore dello stabilimento in cui si produce il nuovo prodotto “voluto” dalla proprietà;

b)     l’efficienza riferita al direttore dell’Ufficio tecnico di un Comune per quanto riguarda la costruzione di un asilo-nido “voluto” dalla Giunta municipale.

Anche l’efficienza gestionale è costituita dal rapporto tra obiettivo e risorse impiegate, ma mentre l’efficienza istituzionale non può che essere riguardata “ex ante” (di tipo programmatorio) quella gestionale non può che essere analizzata “ex post” (a consuntivo).

Ed è su questa diversa valutazione dell’efficienza che si accende il contrasto fra proprietà e management, e soprattutto tra direzione politica e direzione tecnico-amministrativa.

Da questo contrasto origina la sfiducia che spesso si riscontra nelle strutture pubbliche fra “amministratori” e “burocrati”; i primi accusano frequentemente i secondi di inefficienza. I secondi ricambiano con accuse di comportamenti demagogici e di incompetenza (E. Valentini).

Nel settore privato l’esistenza di questo contrasto o porta al fallimento dell’impresa o al licenziamento del manager.

Il mercato ha in sé, quindi, il sistema per “eliminare gli inefficienti”. Nel pubblico ciò non possibile, non tanto perché non è licenziabile il dirigente inefficiente, ma perché non esiste il fallimento del “proprietario” imprevidente.

Ne consegue che “fisiologicamente” un certo tasso di minore efficienza del settore pubblico rispetto Al settore privato va dato per acquisito; sulla entità e tollerabilità di tate tasso, la valutazione non può che essere politica in considerazione del fatto che alcune “produzioni” non possono non essere che di tipo pubblico e che, in certe situazioni, anche le produzioni non necessariamente pubbliche vengono “politicamente” rese pubbliche.

Ma tutto questo non esime la classe dirigente di un Paese dal non tenere conto dell’efficienza; da ciò l’esigenza di trovare strumenti, di mettere a punto metodologie che monitorino e valutino l’efficienza delle istituzioni pubbliche.

Nel contesto della fase sperimentale del FEPA, per ciò che riguarda la misurazione della efficienza gestionale, si è pervenuti a mettere a punto una serie di indici (o indicatori) utili allo scopo:

  • Indice di produzione effettiva (IPE, in sigla), definito come rapporto tra le Unità di prodotto e carico di lavoro;
  • Tempo medio per unità di prodotto (TMP, in sigla), individuato come rapporto tra il tempo impiegato effettivamente per la realizzazione dei prodotti ed il numero degli addetti;
  • Tempo medio per addetto (TMA, in sigla) definito dal rapporto tra il tempo impiegato nella produzione ed il numero degli addetti;
  • Produzione media per addetto (PMA, in sigla), ricavata dal rapporto tra le Unità di prodotto realizzate ed il numero degli addetti;
  • Carico di lavoro medio per addetto (CMA, in sigla), determinato dal rapporto fra il carico di lavoro ed il numero degli addetti.

Intendendo per:

1.      carico di lavoro, il flusso delle Unità di prodotto “da realizzare” nel corso del periodo di tempo oggetto di rilevazione;

2.      unità prodotte, cioè quelle realizzate dall’Unità operativa interessata nel corso del periodo di rilevazione:

3.      tempo impiegato in giorni/uomo, che è dato dal numero delle giornate effettivamente dedicate nell’anno da tutti gli addetti alla realizzazione delle Unità di prodotto.

Al termine del Progetto la NTG 5 è risultata molto più semplice con la individuazione dei seguenti indici: 1. Indice di produzione effettiva (IPE), distintamente per prodotto, per settore, per ente, inteso come rapporto tra produzione e risorse umane impiegate; 2. Indice di presenza (IPz), distintamente per settore e per ente, definito come il rapporto fra ore di presenza effettiva e ore di presenza contrattuali; 3. indice di costo (ICS), distintamente per settore e per ente, inteso come rapporto tra produzione realizzata e costi sostenuti per realizzare la produzione.

Maneggiare le informazioni che un qualsiasi sistema informativo, presente in un computer anche portatile, può oggi elaborare con i dati ad esso forniti, rappresenta per il management un grande passo avanti in quel campo che si individua con il termine “gestione delle risorse umane”.

E costituisce la base cognitiva che può consentire alla Corte dei conti, in quel tipo di controllo che richiede la comparazione tra due enti o strutture similari di esse, di svolgere il suo lavoro, cioè di evidenziare la produttività del lavoro e il perseguimento dei suoi obblighi di servizio. La disciplina dell’economia del lavoro finalmente può trovare ingresso in un mondo che si è dimostrato sinora refrattario ad esso.

Anche dell’efficacia si è discusso, arrivando a conclusioni che sono assolutamente plausibili.

È sufficiente qualificare la stessa con questo rapporto:

Efcia = Obra/Obpr

dove Obpr =obiettivo prefissato, e Obra = obiettivo raggiunto.

E anche per l’efficacia è opportuno distinguere tra “efficacia istituzionale” ed “efficacia gestionale”. Si ha efficacia istituzionale allorquando l’obiettivo prefissato riguarda il cosa produrre, il cosa conseguire: ad es., la Giunta di un Comune decide di aprire un certo numero di asili-nido…

Anche per l’efficacia gestione vale la definizione di “rapporto fra obiettivo prefissato e obiettivo realizzato”, ma limitatamente alla gestione intesa come concreto operare in vista dell’ottimale raggiungimento degli obiettivi (risultati) stabiliti in sede istituzionale.

L’efficacia gestionale non concerne quindi il “cosa produrre” ma il “come produrre” il “cosa”.

Mentre l’efficacia istituzionale riguarda il proprietario o il responsabile “politico” di una certa istituzione, quella gestionale riguarda il management della istituzione stessa.

Gli indici di efficienza

Secondo il Progetto FEPA.

  1. Indice di produzione effettiva di prodotto
  2. Indice di produzione effettiva di Settore e di Ente
  3. Indice di produzione contrattuale
  4. Indice di presenza

È evidente che l’efficacia istituzionale è complementare a quella gestionale, ma la separazione concettuale e metodologica si dimostra necessaria per facilitare la delimitazione del terreno della responsabilità che risulta calpestato sia dalla politica che dalle burocrazie.

È facile constatare che in maggiore “interesse manageriale” nei riguardi dei temi (trascurati) della efficienza e dell’efficacia istituzionali, cioè nei riguardi della “produttività istituzionale” (buone leggi, ma soprattutto obiettivi perseguibili), potrebbe contribuire a migliorare il Paese Italia molto di più delle tante riforme istituzionali (passate, ma con effetti permanenti; future, ma senza alcun costrutto).

Come anche per l’efficienza, l’efficacia istituzionale, dato che si riferisce ad obiettivo della Istituzione interessata, dovrebbe essere preventivamente determinata, soprattutto per una realistica quantificazione del raggiungibile.

Il “cosa” produrre, il “cosa” conseguire nelle Istituzioni pubbliche viene, però, deciso frequentemente (obiettivo prefissato) dopo una lunga fase preparatoria di tipo formalmente giuridico, ma che ha formato oggetto di mediazione.

Ne deriva da tale modo di operare, che riceve il supporto dei giuristi presenti da sempre nelle organizzazioni ministeriali (e regionali), a livello sia di Capo di Gabinetto che di Capo di Ufficio Legislativo, che l’efficacia realmente perseguita non è sempre quella “correttamente” istituzionale.

Per valutare la “correttezza istituzionale” degli obiettivi l’ordinamento prevede diversi controlli (compreso quello parlamentare sull’agire dell’Esecutivo…).

Comunque, l’efficacia di una Istituzione pubblica è il rapporto fra l’obiettivo formalmente approvato in conformità all’ordinamento giuridico e quello realizzato.

Spetta alla Corte dei conti, quale Istituzione superiore di controllo, utilizzare, nella predisposizione dei relativi questionari sulla funzionalità del sistema dei controlli interni, “recuperare” a sé i risultati di una ricerca effettuata nel corso di poco più di cinque anni dalle diverse burocrazie; ricerca che usa parole-simbolo il cui significato si dimostra universalmente riconosciuto e accettato.

Il che costituisce un traguardo culturale notevole, soprattutto se esso si consegue in un clima di sostanziale “mediocritas” delle classi dirigenti, ormai incapaci di “leggere” la realtà da governare e di assumere le misure necessarie.

Ma, al contempo, ci si può ritenere convinti del fatto che di una “cultura dei dati” la Corte dei conti abbia bisogno su tutti i fronti: sia sul versante interno, e che si determina nella gestione delle risorse (umane, finanziarie e strumentali) di cui dispone; sia sul versante esterno, quello appena indicato.

Questa nuova funzione, che è ormai nel diritto vigente, fa parte dei contenuti del controllo moderno, quello che sinteticamente si indica come “controllo(qualificato)sulla gestione”; ed essa, per poter essere svolta, abbisogna di ricorrere a una professionalità che sia fondata, appunto, sulla “cultura dei dati” ([48]), che è anche “cultura delle informazioni” acquisite in presa diretta, senza alcuna intermediazione.

Infatti, la cultura della valutazione che è implicita, che fa da presupposto a quelle attività della Corte che usiamo indicare, con discutibile proprietà, “attribuzioni referenti”, o si fondano su una adeguata conoscenza di dati e di fenomeni e soprattutto su una comparazione di andamenti e di fenomeni, o decadono a sequela di osservazioni di buon senso, di vago apprezzamento, che poi rappresentano l’aspetto più fragile dei “referti” (S. Ristuccia).

Una osservazione molto pertinente, ma che, oggi, dopo il controllo esteso dal d.l. n. 174/2012 sui Rendiconti generali delle Regioni a statuto ordinario – tende a perdere di consistenza.

La normativa richiamata ha consentito di affermare alla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29/95: “Oltreché sotto il profilo dell’estensione oggettiva del “controllo sulla gestione” previsto dalle norme impugnate (dalle regioni Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Regione Emilia-Romagna n.d.a.), quest’ultimo non può essere fondatamente contestato neppure sotto il profilo della sua imputazione soggettiva alla Corte dei conti.

Come organo previsto dalla Costituzione in posizione d’indipendenza e di neutralità al fine di svolgere imparzialmente … il controllo contabile sulla gestione del bilancio statale …, la Corte dei conti è stata istituita come organo di controllo volto a garantire il rispetto della legittimità da parte degli atti amministrativi e della corretta gestione finanziaria.”

Con lo sviluppo del decentramento e l’istituzione delle regioni, che hanno portato alla moltiplicazione dei centri di spesa pubblica, la prassi giurisprudenziale e le leggi di attuazione della Costituzione (n.d.a.: tale si può qualificare la legge n. 20/94) hanno esteso l’ambito del controllo esercitato dalla Corte dei conti, per un verso, interpretandone le funzioni in senso espansivo come organo posto al servizio dello Stato-comunità, e non già soltanto dello Stato-governo, e, per altro verso, esaltandone il modo complessivo quale garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e, in particolare, della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità”.

Questa autorevole interpretazione del ruolo, cui è chiamato ad assolvere il massimo Organo costituzionale di controllo indipendente esterno potrebbe essere utilizzato per riscrivere quella parte che ogni buon manuale amministrativo di diritto amministrativo dedica all’istituzione “Corte dei conti”.

E potrebbe essere utilizzato per porsi – le diverse comunità amministrate – una domanda per alcuni aspetti conseguenziale al nuovo dover essere della Corte dei conti nel contesto dell’ordinamento nazionale ([49]).

Alcuni segnali forti, di vera, sostanziale innovazione, si stanno avvertendo: le amministrazioni cominciano ad essere richieste, da parte della Corte dei conti, di invio di dati e informazioni utili allo scopo; si effettuano, poi, da parte di alcuni magistrati contabili, ispezioni dirette in U.S.L. o aziende ospedaliere; si propongono, ancora, specifici questionari di controllo ([50]) che stimolano la dirigenza a un ripensamento organizzatorio dei servizi …; si impiantano i primi nuclei dell’istituto del Servizio di controllo interno …

C’è chi immagina che la Corte dei conti non abbia ancora riorganizzato il suo apparato per lo sviluppo di quella attività investigativa propedeutica al tipo di audit da svolgere nei confronti delle istituzioni presenti nel territorio.

Non si può disconoscere che le difficoltà esistono, anche di natura culturale; ma la stessa legge fornisce i rimedi per superare gli eventuali gaps, o scostamenti dall’optimum.

——————–

*  Pur avendo condiviso il tema nella sua unitarietà, Rosario Scalia ha curato la Premessa ed i capitoli  1, 1.1 e  1.2; mentre Federica Scalia ha elaborato i capitoli  2 e 3.


[1]             V. Vanessa Roghi (a cura di), “Sergio Ristuccia. La Fondazione Adriano Olivetti in via Zanardelli: tra il Quirinale e San Pietro, 1976-1987”, ed. Fondazione Adriano Olivetti, 22.5.2008, p. 90.

[2]             Un obiettivo che si considerava essere comune ad ambedue i settori, ma che risulta smentito dalle indagini condotte, a metà degli anni settanta del secolo scorso, nelle pubbliche amministrazioni degli U.S.A., da un economista d’impresa, il prof. William A. Niskanen. Di questo docente di economia aziendale, che si è occupato di studiare il comportamento amministrativo, si consigliano “The peculiar economics of bureaucracy”, in American Economic Review (1968); Bureaucracy: servant or master (1973); Bureaucracy in Democracy (a cura di C. Rowley) (1987); Gradual versus comprehensive reform, in Cato Journal (1992).

[3]             V., per un approccio di carattere generale, Vittorio Mortara, “Comportamento amministrativo” (voce), in Enciclopedia delle scienze sociali, 1992, p. 12. Nel suo saggio, purtroppo, i riferimenti sono tutti a richiamare studiosi di organizzazione d’impresa americani.

[4]             La gestione delle risorse umane come quella delle risorse tecnologiche, in alcuni casi, fu affidata a strutture denominate “servizi” (pur continuando ad essere dirette da dirigenti generali); mentre la gestione delle missioni istituzionali veniva affidata a strutture denominate “direzioni generali” o “dipartimenti”. Nella prima fase di applicazione del decreto legislativo in questione, la scelta della denominazione si presentò di una certa quale rilevanza; nel corso del tempo, essa sembra aver perso di valore e, anche, di significato.

[5]             V. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, 1993; Idem, M. Stipo, Itinerari dell’interesse pubblico nell’ordinamento democratico nel quadro generale degli interessi, in www.contabilità-pubblica.it, 1.12.2014; G. Berti, La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova, 1968; B. Cavallo, Teoria e prassi della pubblica amministrazione, Milano, 2005.

[6]             Sul ruolo della Corte dei conti riguardo alla verifica economica della contrattazione collettiva del pubblico impiego, v., ex multis, la delibera C.d.c. n. 85/2020/CCR, p. 267 e ss., Cap. 3 “L’attività di controllo della Corte dei conti sulla contrattazione collettiva: la certificazione dei contratti collettivi”; Di recente, P. Cosa, Le Sezioni Riunite della Corte dei conti ribadiscono la centralità del riscontro circa l’attendibilità della quantificazione dei costi nell’ambito delle attività di certificazione dei contratti collettivi, in Riv. C.d.c., n. 1/2023, p. 116-129.

[7]             V. G. Rivosecchi, “La Corte dei conti tra controllo sulla funzione pubblica e giurisdizione per responsabilità erariale, oggi”, in Riv. C.d.c., n. 1/2023, pagg 1 e ss.; Cfr. V. Talamo, “Gli interventi sul costo del lavoro nelle dinamiche della contrattazione collettiva nazionale integrativa”, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 3-4 2009, p. 37 e ss..

[8]             A fornire il suo contributo tecnico è, stata chiamata la Corte dei conti; realizzato con la elaborazione, a cura della Sezione delle Autonomie, di uno specifico questionario annuale dal titolo “Linee guida e relativo questionario per le relazioni annuali del Sindaco dei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, del Sindaco delle Città metropolitane e del Presidente delle Province sul funzionamento del sistema integrato dei controlli interni…”. Esso risulta indirizzato ai rappresentanti politici degli Enti territoriali (Presidente di Regione, Presidente di Provincia, Sindaci) a norma di quanto prevede l’art. 148 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

[9]             Sulla utilità, a fini di controllo gestionale, dei c.d. “indicatori finanziari”, nel settore privato, cfr. Clara Walsh, I ratios: strumenti chiave di gestione. Gli indici di bilancio per analizzare, confrontare e controllare i valori aziendali, ed. Jackson Libri,1994, p. 251. Nel settore pubblico, v. “indici di bilancio” (voce), in “Aspetti istituzionali e metodologici del controllo di gestione” (ricerca Cogest, a cura di G. Cogliandro), ed. Corte dei conti, Centro Fotolitografico, 15 ottobre 2021, p. 210 e ss.

[10]            Confusione accresciuta dal fatto che, per una malintesa interpretazione del termine “autonomia”, il Legislatore nazionale prevede una diversificazione della organizzazione dei controlli interni tale che da non poterne trarre, nei fatti, alcun vantaggio né l’Ente né tantomeno la Corte dei conti…

[11]            Scelta politica che si rivelerà, alla distanza, la più scellerata di tutte perché porterà a generare illusioni nel cambiamento che si andava sempre più auspicando (dileggiando le burocrazie di professione) e al ricorso a “dirigenti esterni” scelti, sempre dai decisori politici, non certo per meriti acquisiti ma per semplici affinità politiche.

[12]            Sulla semplificazione si sono ricercati diversi percorsi, addossando la responsabilità del “facere” prima agli URP (Uffici per le Relazioni con il Pubblico), poi alle stesse dirigenze, infine a esperti più o meno addentro al sistema decisionale delle diverse Amministrazioni Pubbliche.

[13]            Sulla qualità della regolazione, V.F. Bassanini-S. Paparo-G. Tiberi, (a cura di), Qualità della regolazione: una risorsa per competere, in wwww.astrid.it, p. 104. V. anche L’Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione (art.5 del d.l. n. 77 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 108 del 2021), struttura di missione che recentemente opera parallelamente alla Segreteria tecnica della Cabina di regia (PNRR, fino al 31.12.2026).In senso generale, V.R. Bettini-S. J. Bobotov, Processi legislativi e teoria generale della funzione del diritto, in “Collana di studi sulla Pubblica Amministrazione”, Istituto Jeremy Bentham, Roma, ed. Bentham, 1994, p. 43-54.

[14]            V. “Lettera sindacale” della CISL, a cura di Roberto Tittarelli, che contiene i rapporti finali del Progetto “Funzionalità ed Efficienza della P.A.” (in sigla, FEPA), ed. CISL, Roma, 1988, p.86.

[15]            Il che si realizza, sotto il profilo della iniziativa politica, nella XVII Legislatura, con la proposta Renzi-Boschi (A.S, n. 1429-D), presentata l’8 aprile 2014. E che porterà, però, a un nulla di fatto, cioè alla riconferma del testo a suo tempo modificato a seguito degli esiti non favorevoli del referendum confermativo tenutosi il 4 dicembre 2016.Memorabili le sollecitazioni ,da parte del Presidente Giorgio Napolitano, a fare le Riforme nel discorso del 2013,dopo la seconda elezione a Capo dello Stato :”Non mi sono sottratto a questa prova ,ma sapendo che quanto accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una serie di omissioni e di guasti, di omissioni e irresponsabilità”.

[16]            V., ex multis, L. Bernacchia, L’organizzazione del lavoro d’ufficio e pratica amministrativa, Collana Scienza dell’amministrazione, vol. 2, ed. Calderini, Bologna, 1986, p. 574; in particolare, i circoli di qualità, p. 441-451. Anche Dipartimento della Funzione Pubblica, Cittadini e Pubblica Amministrazione. Indagine sull’attuazione delle leggi sull’autonomia locale e sul procedimento amministrativo, in “Quaderni del Dipartimento per la Funzione Pubblica”, n. 25, IPZS, Roma, 1994, p. 165 (questionari allegati); Idem, Le norme sulla incentivazione della produttività nelle pubbliche amministrazioni, in “Quaderni del Dipartimento per la Funzione Pubblica”, n. 18, IPZS, Roma, 1994, p. 280. Ancor prima, V. Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica. Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, “La riforma dell’azione pubblica tra vincoli di bilancio ed obiettivi di efficienza”, Roma, IPZS, 2001, in particolare Capitolo 3 (Analisi dell’efficienza della pubblica amministrazione), p. 205-306.

[17]            L’obbligo di dover conseguire dei risultati non è una novità legislativa del 1993. Era già stata disciplinato questo obbligo con il d.P.R. n. 748 del 1972. In definitiva, ben 21 anni prima. E, poi, ribadito nella “Dichiarazione di Lima” (INTOSAI, Perù, 1977). Infatti, si tratta di un impegno di servizio che risulta naturalmente connesso alla c.d. “responsabilità dirigenziale”, tanto è vero che si inizia a parlare di una corresponsione del trattamento economico (o di una quota di esso) che andrebbe legato al perseguimento (effettivo) di essi.

[18]            Sul tema, il d.lgs. n. 165 del 2001 chiarisce che tale responsabilità si configura per il “mancato raggiungimento degli obiettivi” (ovvero nel non avere conseguito il risultato atteso) nonché per l’” inosservanza delle direttive imputabile al dirigente”.

[19]            V., ex multis, Corte cost. sent. n. 190/2022, n. 153/2021, n. 212/2021, n. 273/2020, n. 10/2019. Essa ha affermato più volte che “La disciplina del trattamento economico e giuridico, anche con riguardo al pubblico impiego regionale, è riconducibile alla materia “ordinamento civile”, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato”“Il contrasto con la Costituzione si ha nell’art. 97 Cost. e nell’art. 117, c. 2, lett) l, Cost.”. Per una rassegna sul tema, Corte costituzionale – Ufficio del Massimario, vol. 5. I rapporti tra Sato e Regioni (Le altre materie dell’art. 117 Cost.), www.cortecostituzionale.it, p. 307-340.

[20]            V. G. Pizziconi, “I vincoli di finanza pubblica sul personale e autonomia negoziale. Gli effetti delle limitazioni normative su alcuni istituti del CCCNL 2019-2021 Funzioni Locali. Parte prima, in “Management locale”, n. 5/2023, p. 21-35. V. “La revisione della spesa pubblica. L’accertamento del costo del lavoro come verifica dell’efficienza delle istituzioni pubbliche” (a cura di R. Scalia), Collana “Materiali per una nuova contabilità degli enti pubblici”, dossier 15.7, ed. Istituto Max Weber, Roma, marzo 2018, p. 224.

[21]            L’art. 64, c. 1, “… Accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi. (Art. 68-bis del D.Lgs. n. 29 del 1993, aggiunto dall’art. 30 del D.Lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall’art. 19, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 387 del 1998) prevede che

1. Quando per la definizione di una controversia individuale di cui all’articolo 63, è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, sottoscritto dall’ARAN ai sensi dell’articolo 40 e seguenti, il giudice, con ordinanza non impugnabile, nella quale indica la questione da risolvere, fissa una nuova udienza di discussione non prima di centoventi giorni e dispone la comunicazione, a cura della cancelleria, dell’ordinanza, del ricorso introduttivo e della memoria difensiva all’ARAN.”.

[22]            La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali è stata istituita con la legge 12 giugno 1990, n. 146, e succ. mod. e integr..

[23]            L’organizzazione in senso stretto è quella che si concreta nella definizione, per ogni apparato, della struttura delle responsabilità (livelli gerarchici). E che si traduce visivamente, allo stato della legislazione vigente, nella pubblicazione del c.d. “organigramma” nel sito web (Amministrazione trasparente) dedicato di ogni Istituzione.

[24]            Le scelte fondamentali in materia di organizzazione sono contenute, ovviamente, nel d.lgs. n.29/93 nato da una legge-delega approvata dal Parlamento.

[25]            Per “efficienza”, secondo la disciplina della scienza dell’amministrazione, si intende il rapporto tra i fattori impiegati (input) e il prodotto ottenuto (output), in Glossario (a cura di S. Pacchiarotti), dossier “Aspetti istituzionali e metodologici del controllo di gestione” (ricerca condotta con il contributo del CNR), Corte dei conti – Seminario permanente dei controlli, ed. Corte dei conti, Roma, 15 ottobre 2001, p. 206.

[26]            Per” economicità” di intende la capacità del servizio pubblico di produrre beni e servizi di buona qualità, in sufficiente quantità e al prezzo migliore possibile. In Glossario cit., v. nota precedente, p. 206.

[27]            Per “efficacia” si intende, da un lato, la modificazione del bisogno ottenuto attraverso l ‘erogazione delle prestazioni e, dall’altro, il giudizio sulla adeguatezza qualitativa e quantitativa dell’azione rispetto agli obiettivi. In Glossario cit., v. nota precedente, p. 206.

[28]            Le modifiche sono state introdotte con d.P.R. 13 giugno 2023, n.18. Entrato in vigore il 1° luglio 2023, a seguito di parere definitivo del Consiglio di Stato reso il 14 aprile 2023.

[29]            Gli spazi decisionali risultano predefiniti per ciascuna delle tipologie di dirigente: 1. Alto livello (art. 16); 2. Medio livello (art. 17; art. 17-bis); 3. Basso livello (art. 19, c. 10). Apparentemente i livelli non sembrano sottoordinati; nei fatti, vige tra essi il principio di gerarchia.

[30]            Sul tema del rispetto (formale) della legge, e di come esso si realizza (o non si realizza), si potrebbero richiamare alcune frasi celebri che hanno tentato di spiegarlo alla comunità civile: “Non c’è tirannia peggiore all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu); “Il buon cittadino è quello che non può tollerare nella sua patria un potere che pretende d’essere superiore alle leggi” (Cicerone); “Le brave persone non hanno bisogno di leggi che dicano loro di agire responsabilmente, mentre le cattive persone troveranno un modo per aggirare le leggi” (Platone).

[31]            V. Joseph S. Wholey, In che modo la valutazione può migliorare la performance di enti e programmi, in “Classici della valutazione” (a cura di Nicoletta Stame), ed. Franco Angeli, Milano, 2007. p. 239-248.

[32]            Agli URP, istituiti con l’art. 12 del d.lgs. n. 29/93 (modificato dalla l. n. 150/2000), si affida il compito – in maniera del tutto irrazionale – di curare la predisposizione di proposte riguardo allo snellimento dei procedimenti amministrativi. Proposte che non potranno mai provenire da chi non lavora la pratica ma solo ne dà notizia al cittadino o all’impresa.

[33]            Ma solo nel 2004, il Dipartimento della Funzione Pubblica si occuperà di tale tema con la c.d. “Direttiva Manzella” del 24 marzo 2004; integrata dalle disposizioni contenute nella circolare n. 1/2020 recante “Misure incentivanti per il ricorso a modalità flessibili di svolgimento delle prestazioni lavorative”, a firma del Ministro Fabiana Daidone.

[34]            Remo Gaspari (1921-2011) è stato Ministro della Funzione Pubblica dall’ 8 agosto 1989 al 1991 con il Governo Andreotti I, e poi dal 1991 al 1992, con il Governo Andreotti II.

[35]            Tali ricordi sono registrati da Emidio Valentini nel suo libro di memorie dal titolo “Una vita al servizio dello Stato e del Paese”, ed. Ilmiolibro, 2018, www.ilmiolibro.kataweb.it, p. 156 e ss.. Di Remo Gaspari ne parla come de “l’abruzzese di buon senso e innovatore” (dall’agosto 1983 all’aprile 1987, al Dipartimento della Funzione Pubblica). Inoltre, V. E. Valentini, “Contabilità analitica nelle attività amministrative e nei servizi “, ed. Il ventaglio, Roma, 1995, p. 251; Idem, “tep di MarxKeynesNtg (e PIL)”, sito web relativo.

[36]            Nella collana di studi e ricerche “Politiche pubbliche, gestione, controllo”, dossier n. 3.23, dal titolo “La pubblica amministrazione nel pensiero di Emidio Valentini”, Roma, aprile 2018, p. 228. Testo reperibile presso “L’Archivio delle istituzioni” dell’Istituto Max Weber, Acireale, Biblioteca della Fondazione “Atene e Roma” presso l’ex Collegio Santonoceto.

[37]            Il prof. Massimo Severo Giannini (1915-2000) è stato Ministro per la organizzazione della PA e per le Regioni dal 4 agosto 1979 al 28 settembre 1980, nel Governo Cossiga I e, poi, nel successivo Cossiga II.

[38]            È con il d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che si prevede la costituzione di tale Ufficio, posizionato, in genere, presso la Direzione generale degli affari generali e del personale o presso il Segretariato generale, nei Ministeri in cui, a quel tempo, era previsto (Esteri, Difesa, Finanze…). Ufficio posto a supporto del Consiglio di amministrazione operante presso ciascun Ministero, presieduto dal Ministro o da un Sottosegretario con delega.

[39]            L’ideatore del Progetto FEPA era Emidio Valentini, un dirigente delle Ferrovie dello Stato, che aveva molto lavorato presso gli Uffici di organizzazione e metodi di tale società, occupandosi della gestione della rete ferroviaria e dell’uso del personale nei turni di lavoro al fine di garantire la massima puntualità possibile dei treni viaggiatori e dei treni merci. Sulle esperienze di vita professionale, V. E. Valentini, “Una vita al servizio dello Stato e del Paese”, in ilmiolibro.kataweb.it, Roma, 2018, p. 156.

[40]            È nella deliberazione n. 2 del 1992 (Sezione Enti Locali, Pres. Buscema, Rel. Condemi) che la Corte dei conti fornisce, per la prima volta, un “giudizio” sul modo di fare controllo finanziario-contabile da parte del Collegio dei revisori dei conti, evidenziandone le carenze e gli errori di valutazione, in “Studi per il decennale della Sezione Enti Locali della Corte dei conti”, vol. II, ed. IPZS, Roma, 1992, p. 251-267.

[41]            Un referto che affronta il tema della efficienza, dopo avere analizzato i tempi di esecuzione dei programmi regionali relativi al “trasporto pubblico locale” (1. Il trasporto pubblico. 2. Trasporto pubblico collettivo su strada. 3. Trasporto pubblico di viaggiatori su strada su linee di interesse generale. 4. Le ferrovie in concessione e in gestione commissariale governativa. 5. La programmazione regionale e i rimedi al deficit di settore. 6. Conclusioni. Fonti normative. Tabelle).

[42]            A conferma di ciò, V. “Io sono il potere. Confessioni di un Capo di gabinetto” (a cura di Giuseppe Salvaggiuolo), ed. Feltrinelli, Milano, 2020, p. 284. Cfr. R. Ruffini, Performance e buona amministrazione: il ruolo dei Nuclei di valutazione, in “Il controllo indipendente esterno. Diversi oggetti, diversi sistemi di valutazione” (Atti del Convegno di Potenza,15 aprile 2019, a cura di Rosario Scalia), ed. Bonanno, Acireale-Roma, 2020, p. 217-236.

[43]            V., ex multis, P. Avril, “Saggio sui partiti”, ed. Giappichelli, Torino,1990, p. 247. Anche, Sergio Ristuccia, “Amministrare e governare; governo, parlamento, amministrazione nella crisi del sistema politico”, ed. Officina, Torino, 1980, p. 672.

[44]            Nel fare valutazione delle politiche pubbliche, il Magistrato relatore (che è stato lo stesso che ha svolto la relativa indagine, deve usare un linguaggio diverso sicuramente da quello che egli usa quando accerta ipotesi di illegittimità o di irregolarità contabile. Dovendo, sulla base di esperienze amministrative similari, ricorrere a un linguaggio in cui la sollecitazione a migliorare i processi decisionali è di uso comune, egli utilizzerà i verbi al condizionale (ad es. sarebbe opportuno che …, oppure sarebbe auspicabile che…). Il suo linguaggio diventa quello del giornalista di cronaca, di una cronaca complessa in cui i soggetti da osservare e descrivere sono molti…; e le cui interrelazioni si dimostrano complesse come risultano definite dall’art. 11 della legge n. 15 del 2009 (c.d. legge Brunetta).

[45]            Il fatto stesso che le sollecitazioni al cambiamento possano non essere prese in considerazione dall’Amministrazione cui sono dirette, sta a dimostrare che le relative deliberazioni non determinano alcuna coazione o limitazione di autonomia della istituzione controllata.

[46]            V. Corte costituzionale, sent. n. 110/2023. Cfr. F. Scalia, “Il principio contabile del divieto del soccorso finanziario a fronte di situazioni deficitarie irreversibili riguardanti la gestione di servizi pubblici locali”, in Management locale, ed. Asfel, n. 5/2023, p. 65-97.

[47]            L’audit può assumere diverse forme: 1. audit dell’efficienza; 2. audit dell’efficacia; 3. audit delle capacità di performance management; 4. audit delle informazioni sulla performance; 5. valutazione del rischio; 6. analisi della migliore operatività; 7. analisi del general management. Tali tipologie di audit richiedono che si sia effettuata una attenta analisi della organizzazione. Nel 2019, per la prima volta, nella storia del Dipartimento della Funzione Pubblica, viene emanata una circolare avente ad oggetto “Indicatori comuni per le funzioni di supporto delle Amministrazioni Pubbliche -ciclo della performance 2020-2022”, a firma del Ministro Fabiana Daidone.

[48][48]         Sul tema della poliedrica professionalità che va posseduta, ormai, dal Magistrato della Corte dei conti si è espresso Francesco Staderini, “La formazione professionale del magistrato contabile”, in Giornale di diritto amministrativo, n. 9, 2004, ed. Wolters Kluwer Italia, Milano, p.1043-1047, con riferimento al ruolo del “Seminario permanente dei controlli”, istituito con delib. SS.RR. n. 2/1997. Ora, “Scuola di alta formazione”, istituita con delibera del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti il 30 aprile 2020. V. anche Simonetta Rosa, “Il ruolo del Seminario della formazione permanente, per una cultura omogenea del controllo e dell’accertamento della responsabilità”, in “La cultura del controllo indipendente nell’ordinamento italiano” (Atti del Convegno di Matera, a cura di R. Scalia), ed. Cacucci, Bari, 2020, p. 111-122.

[49]            V. di recente, R. Scalia, Il ruolo della Corte dei conti nell’ordinamento nazionale, in Rivista della Guardia di Finanza, n. 6/2022, p. 1553–1592.

[50]            Da parte, in particolare, della Sezione delle Autonomie con la messa a punto di linee-guida che richiedono ai destinatari (decisori politici, Collegio dei revisori, etc.) l’obbligo di completarli e di rinviarli compilati in ogni loro parte alle competenti Sezioni regionali di controllo.

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