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Il danno all’immagine alla P.A. dovrebbe essere sottoposto al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Note critiche sul criterio di quantificazione del danno introdotto dall’art. 1, comma 62, della Legge n. 190 del 2012.

dell’Avv. Prof. Adriano Tortora.

1. Una premessa: il danno all’immagine come ricostruito dalla Corte dei Conti e dalla dottrina più autorevole.

 La figura di danno in questione[1], dapprima oggetto di ricostruzione giurisprudenziale[2], è stata interessata da successivi interventi del legislatore che, come vedremo, hanno apportato rilevanti modifiche introducendo in particolare una delle (rare) figure di punitive damages che conosce l’ordinamento nostrano, volta a rafforzare l’apparato repressivo in ragione del bene giuridico tutelato: l’immagine della pubblica amministrazione, ricondotta ai canoni di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost.

In quest’ottica, secondo attenta dottrina[3], Il danno all’immagine configura una lesione dell’affectio societatis e porta al convincimento che l’azione della pubblica amministrazione sia conformata a fenomeni patologici di bad admnistration.

Invero secondo l’autore sopra richiamato “L’esigenza di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione, intesa quale organizzazione finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici, deriva dall’identificazione, propria del sentire comune, tra amministrazione ed interessi perseguiti per cui l’amministrazione viene individuata in base all’interesse tutelato – ad es. sani-tà, giustizia, sicurezza – e percepibile anche dal quisque de populo[4]”.

L’immediata conseguenza di questa identificazione funzionale è che la lesione dell’immagine della p.a. determina anche una perdita di affidabilità dell’azione degli apparati pubblici, che si riverbera in una diminuzione della percezione della qualità dei servizi erogati, oltre alla ben più grave convinzione che “il comportamento illecito posto in essere dal dipendente rappresenti il modo in cui l’ente agisce ordinariamente[5]”. Il danno all’immagine della p.a., infatti, si concretizza proprio in relazione alla percezione esterna che si ha del modello di azione pubblica.

Quindi, tale forma di danno altera il prestigio dello Stato – amministrazione che a causa dell’illecito del pubblico dipendente perde credibilità agli occhi dei cittadini[6]. Ogni azione del pubblico dipendente che leda tali interessi si traduce dunque in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione che viene immedesimata in una struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata

Con riguardo ai presupposti necessari per la configurazione del danno all’immagine è necessario che una condotta, sanzionata in sede penale, sia posta in essere nello svolgimento del munus pubblico (indipendentemente dalla sussistenza di un rapporto di servizio in senso stretto);  che abbia ad oggetto un bene valore di particolare rilevanza (quali la giustizia, la sicurezza, l’ordine pubblico, la salute, ecc.); e che vi sia un nesso di causalità tra la condotta e l’evento, indipendentemente dalla diffusione dell’illecito a mezzo stampa[7].

Il criterio del clamor fori, ossia la rilevanza della divulgazione del fatto illecito nell’opinione pubblica, costituisce un parametro per commisurare la quantificazione del danno piuttosto che la sua sussistenza, dovendosi valutare se la condotta posta in essere concretamente sia in grado di procurare un certo allarme tra i consociati, a prescindere dalle notizie che ne abbiano dato gli organi di informazione. In altri termini, come si osserva in giurisprudenza: il clamore e la risonanza non integrano la lesione ma ne indicano piuttosto la dimensione[8].

La giurisprudenza ritiene ancora che, ai fini della configurabilità del danno all’immagine, non è necessario la concreta dimostrazione delle spese sostenute dall’amministrazione per il ripristino dell’immagine lesa[9]. Ciò a conforto di una ricostruzione dell’istituto focalizzata sul concetto di danno in re ipsa in cui i parametri concreti per la valutazione della gravità della condotta assurgono a requisiti di quantificazione del danno e non di valutazione dell’esistenza dello stesso danno.

2. La quantificazione del danno all’immagine, il criterio introdotto dall’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012.

La violazione del diritto all’immagine è economicamente valutabile, risolvendosi in un onere finanziario che si ripercuote sull’intera collettività a causa degli effetti distorsivi che causa la condotta illecita i quali si riflettono sull’organizzazione della pubblica amministrazione in termini di minor credibilità e prestigio e di diminuzione di potenzialità operativa[10].

Con specifico riferimento alla quantificazione del danno all’immagine subito dall’amministrazione pubblica, l’art. 1, comma 62, l. n. 190/2012 ha introdotto il non meglio precisato criterio che il danno all’immagine arrecato è pari al doppio della somma di denaro percepita dal dipendente per effetto della sua condotta illecita, accertata in sede penale[11].

Segnatamente, la norma richiamata dispone: “Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine   della   pubblica   amministrazione   derivante   dalla commissione di un reato contro la  stessa  pubblica  amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume,  salva  prova contraria, pari  al  doppio  della  somma  di  denaro  o  del  valore patrimoniale  di   altra   utilità   illecitamente   percepita   dal dipendente”.

Dalla Relazione Illustrativa al D. Lgs. n. 190 del 2012, non risultano affatto indicate le ragioni per le quali si è ritenuto di individuare il danno all’immagine nel doppio dell’utilità percepita. Cosicché la norma sembra difettare di determinatezza.

Tale lacuna non viene nemmeno assorbita dalla affermata natura di punitive damages del criterio previsto dalla norma in commento. Anzi la tecnica di costruzione della norma appare un tentativo maldestro di impiantare nel nostro ordinamento concetti alieni alla nostra tradizione giuridica che vengono introdotti senza la giusta consapevolezza della delicatezza del trapianto.

La norma in esame, infatti, non introduce alcun criterio di valutazione prevedendo una liquidazione secca del risarcimento del danno, fatta salva la prova contraria. Però, non è dato comprendere, nel silenzio della norma, quale prova dovrebbe offrire il danneggiante.

Ma entriamo nel dettaglio.

3. Il case law.

Un Presidente della Commissione Locale, competente per il rilascio di certificati di idoneità alla guida ai sensi dell’art. 119, comma 4, del Codice della Strada, aveva ricevuto da un titolare di un laboratorio di analisi, una somma mensile per compiere atti contrari ai doveri di ufficio, consistiti nella consegna agli utenti della commissione di un foglio con l’indicazione del predetto laboratorio, a scapito degli altri, over poter effettuare le necessarie analisi chimiche.

In applicazione dell’art. 444 cpp, per i fatti sopra elencati, il Presidente della Commissione Locale è stato condannato in sede penale per i reati di cui 110, 319 e 321 cp. Inoltre, ai sensi dell’art 322 ter cp, il Tribunale ordinò la confisca di € 330.000,00 costituente il prezzo del reato.

Tenuto conto che anche gli altri concorrenti del medesimo fatto dannoso sono stati condannati in sede penale, complessivamente venne versato allo Stato Italiano, a titolo di confisca (ex art 322 ter cp) e di risarcimento del danno la somma di € 1.053.000,00.

Successivamente il Presidente della Commissione Locale veniva sottoposto a processo anche dalla Corte dei Conti per danno all’immagine.

Con sentenza n. 100/2021 la Corte dei Conti, sezione regionale per il Lazio, all’esito del processo, in applicazione dell’art. 1 comma 62 D. Lgs. n. 190 del 2012, condannò l’inquisito alla rifusione del danno all’immagine quantificato nella somma di € 610.000,00 pari al doppio delle somme confiscate in sede penale, ai sensi dell’art. 322 ter cp.

La difesa del Presidente della commissione Locale propose appello avverso la succitata sentenza.

La Corte dei Conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, con sentenza n. 466 del 2022 accolse parzialmente l’appello. Premettendo che non sussisterebbe violazione del principio del ne bis in idem in quanto la confisca penale (ex art. 322 ter cp) avrebbe natura afflittiva mentre il danno erariale, per danno all’immagine, avrebbe finalità restitutoria di reintegrazione del patrimonio dell’ente danneggiato, il collegio  confermò la condanna, riducendo l’importo a € 330.000,00 in base ad una valutazione equitativa ex art. 1226 cc. La decisione per quanto oscura nei criteri utilizzati, frutto di presunzioni non dimostrate in giudizio dalla pubblica accusa era giustificata dalla necessità di evitare di dover rimettere alla Corte Costituzionale una legge (art. 1, comma 62 del D. Lgs. n. 190 del 2012) dai palesi profili di incostituzionalità e pertanto con l’elevato rischio di essere dichiarata incostituzionale. La salvezza della norma de qua, da una probabile declaratoria d’incostituzionalità, è avvenuta con evidente strozzatura di ogni principio cardine del processo: dal diritto di difesa, alla certezza del diritto, fino alla necessità che il danno sia oggetto di allegazione e prova da parte del danneggiato.

Questo case law sicuramente si presta ad essere oggetto di un ricorso alla CEDU per violazione del principio di legalità e tassatività della norma penale, dell’art. 1 del protocollo addizionale Cedu che tutela la proprietà e del principio del ne bis in idem[12].

Appare infatti evidente che  il Presidente della commissione locale ha subito una grave e seria lesione dei suoi beni e delle sue proprietà, a causa di una doppia condanna: una confisca in sede penale (€ 330.000,00) e l’altra in sede amministrativa ove gli è stato riconosciuto il dovere di risarcire il danno all’immagine alla pa (€ 330,000,00) sulla base di criteri assolutamente indeterminati violativi di ogni basilare principio di diritto.

Come sopra accennato, la L. n. 190 del 2012 ha introdotto un criterio per la liquidazione del danno all’immagine (il doppio di quanto illecitamente percepito) ma senza prevedere alcuna regola per graduare e rendere proporzionale il risarcimento all’offesa arrecata dal danneggiante. Non si comprende da dove sia saltato fuori questo doppio e perché sia stato individuato in tale misura il risarcimento de quo e non, ad esempio, nel triplo o nella metà, e così via. Nulla dicono al riguardo i lavori preparatori dove non c’è una sola parola sul perché della scelta del doppio. Nei fatti è strada introdotta una sanzione frutto di un automatismo privo di alcuna giustificazione, sganciato da ogni valutazione nel merito, asettico e indeterminato sia nell’ammontare sia nel prevedere la possibilità della prova contraria da parte del danneggiante.

Su quest’ultimo aspetto, occorre osservare ancora, oltre al fatto che dovrebbe essere sempre la pubblica accusa (o il danneggiato) a dover offrire prova positiva del danno, come non si comprenda – in base alla lacunosa lettera della legge – su quali elementi dovrebbe ricadere tale prova contraria. Il cui apprezzamento viene affidato alla giurisprudenza con assoluta incertezza per l’incolpato su come debba impostare le proprie difese.

In altri termini, il danno all’immagine viene presunto (persino quando, come nel caso di specie, la condotta dell’incolpato non ha gravato sull’efficienza amministrativa) come viene presunta l’entità del danno.

In sostanza, l’art. 1 comma 62 del D. Lgs. n. 190 del 2012 individua un danno all’immagine completamente sganciato da qualsiasi criterio quando, al contrario, il Codice Civile individua criteri ben precisi per la liquidazione del danno (artt. 1218 e ss).

Se si aggiunge poi che l’incolpato è stato già colpito dalla sanzione afflittiva di cui all’art. 322 ter cp è evidente che, il sistema costruito da legislatore italiano, sia gravemente offensivo dei beni del soggetto incolpato che, anche per condotte di modesta entità, viene di fatto mortificato economicamente gravando sul suo patrimonio pesi ancor maggiori della condanna al carcere. Incredibilmente più tenue e proporzionata rispetto alla condanna alle sanzioni pecuniarie.

Tale sproporzionalità è ancor più grave ove si consideri che il meccanismo di valutazione dell’entità delle restituzioni è totalmente affidato a elementi presuntivi e automatici: sia in sede penale sia dinanzi alla Corte dei Conti.

Per giunta tali criteri presuntivi non vengono nemmeno indicati nel D. Lgs. n. 190 del 2012, pertanto, il danno all’immagine viene costruito come una sanzione automatica pur essendo tale fattispecie da anni bandita dalla cultura giuridica europea per il chiaro vulnus che reca a basilari principi del diritto alla difesa.

Senza contare che la norma in parola non permette nemmeno di valutare se l’amministrazione abbia già acquisito un ristoro soddisfacente per la lesione subita (Dinanzi alla Corte dei Conti, infatti, non hanno acquisito alcun rilievo le somme percepite dall’amministrazione dagli altri concorrenti nel delitto).

Invero, l’amministrazione danneggiata, nel caso di specie, aveva già percepito la complessiva somma di euro 1.053.000,00 da tutti i concorrenti nel reato.

Nonostante tale esagerata liquidazione complessiva del danno, il Presidente della commissione locale è stato condannato a rifondere altri 330.000,00 euro, dalla Corte dei Conti, che non ha tenuto conto – perché’ l’art. 1, comma 62 del d. lgs n. 190 del 2012 non prevede nemmeno criteri per tener conto di quanto già incassato a vario titolo dalla pa per lo stesso fatto generatore di danno – delle somme versate nelle casse della pa dai correi.

L’assoluta erroneità della norma – dell’art. 1, comma 62, del D. Lgs 190 del 2012 – ha imposto alla sezione di appello della Corte dei Conti di ricorrere al criterio equitativo per la liquidazione del danno ma è chiaro che in tal modo il diritto sconfina nell’arbitrio quasi facendo tornare alla mente la Legge Salomonica.

Alla luce di tutte queste argomentazioni, sarebbe opportuno che la CEDU si esprimesse sulla compatibilità alle norme della Carta dei diritti umani dell’art. 1, comma 62, del D. Lgs 190 del 2012 che per tutte le ragioni innanzi esposte ha introdotto nel sistema un criterio iniquo e basato su logiche prive di fondamento giuridico.

4 Considerazioni critiche. Il punitive damage tra tradizione giuridica e scarsa attenzione legislativa.

Il punitive damage è una tecnica risarcitoria, originaria degli ordinamenti anglosassoni, con la quale, ai fini dell’individuazione del quantum del risarcimento, si attribuisce esclusivo rilievo alla gravità della condotta e non al danno subito dal danneggiato.

Quanto alla ratio delle sanzioni punitive, ovvero la loro ragione giustificatrice, appare opportuno richiamare le osservazioni di un autorevole autore “Il danno punitivo nasce per contrastare la frode fra privati, mediante una procedura che ha la pretesa di funzionare indipendentemente da un intervento diretto dello Stato, con i suoi funzionari. Certo occorre una sentenza, poiche´ nessuno puo` farsi giustizia da solo, ma il risultato di questa va a vantaggio di chi ha subito la frode, poiche´ in questo modo ha interesse a denunciarla, anche per la collettivita` . Dal canto suo, lo Stato vede nella condanna al danno punitivo la garanzia del rispetto della legalita, con altro linguaggio si potrebbe dire che, in tal modo, lo Stato si assicura la compliance[13]”.

L’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di fattispecie di danno punitivo si è storicamente scontrata con la nostra tradizione giuridica ferma nel riconoscere al risarcimento del danno unicamente la funzione di ripristino della sfera giuridica lesa[14][15].

Solo recentemente vi è stato un importante revirement della Corte di Cassazione che partendo dalla riconosciuta natura polifunzionale del risarcimento del danno ha ammesso che tra le finalità che l’istituto può avere vi sia anche quella strettamente punitiva. Quindi il punitive damage, come trapiantato dall’esperienza nordamericana, non è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento giuridico[16].

Tuttavia, precisano gli ermellini, stante il limite non valicabile posto dall’art. 23 Cost., eventuali risarcimenti, a titolo punitivo dovranno avere sempre una specifica base legislativa alle spalle non potendo il giudice a quo liberamente statuire sui punitive damages.

Le Sezioni Unite sono perfettamente consapevoli di questa limitazione nel momento in cui hanno precisato che “questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una “qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25, comma 2°, cost., nonché´ dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali” [17]“. Evidenziano ancora le Sezioni Unite, soffermandosi sulla struttura dei danni punitivi: “dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità )”. Tutto questo perché´ deve essere “presidio basilare per la analisi di compatibilità si desume in ogni caso dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione relativo ai “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”.

Dunque, il controllo delle Corti di appello deve finalizzarsi a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest’ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione[18].

Quindi, secondo gli Ermellini, la proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è uno dei cardini della materia della responsabilità civile[19].

Le ipotesi di danno punitivo, o di sanzioni civili indirette, sono certamente presenti nel nostro ordinamento.

In dottrina Franzoni[20] ha fatto un’elencazione esaustiva delle ipotesi principali di danno punitivo, fornendo numerosi esempi tra questi si richiamano:

«– la l. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che, in materia di diffamazione a mezzo stampa, prevede il pagamento di una somma “in relazione alla gravita` dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”;

– l’art. 96 c.p.c., comma 3° che prevede la condanna della parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo.

– il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt. 3-5), che ha abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio e, se i fatti sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva che repressiva[21].

Tracciate queste brevi coordinate sulla struttura e sulla funzione del punitive damage, alla luce dei recenti orientamenti della Suprema Corte di Cassazione, bisogna adesso analizzare la norma dettata dall’art.1 , comma 62, L.190/2012.

Non è in discussione che il criterio di liquidazione del danno individuato dall’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012 sia propriamente un punitive damage.

Al riguardo, prende espressa posizione la Relazione Illustrativa della legge n. 190 del 2012 che definisce il danno all’immagine come un danno evento e non come un danno conseguenza.

Non vi è dubbio nemmeno che la costruzione della norma soffra chiare frizioni con i principi dell’ordinamento giuridico ledendo anche regole di carattere costituzionale.

Come abbiamo visto, principio generale dell’ordinamento giuridico è la proporzionalità del risarcimento anche quando esso ha funzione punitiva. Al contrario, la norma in esame introduce un criterio fisso, non ancorato alla gravità della condotta (o del danno), che non permette al giudice a quo di vestire la sentenza secondo le particolarità della fattispecie della condotta in esame.

Inoltre, il criterio del doppio della somma percepita illecitamente dal soggetto che abbia commesso un delitto contro la pubblica amministrazione, non ha nemmeno spiegazione dal punto di vista del necessario collegamento tra fatto illecito e danno conseguente.

Sembra che il legislatore, nell’individuare il criterio del doppio, abbia completamente travisato regole e principi che governano il punitive damage che non è una tecnica risarcitoria svincolata da qualunque parametro ma che a differenza della tecnica ripristinatoria incentra il metodo di liquidazione sulla condotta e non sul danno conseguenza.

In questi termini, la valutazione della condotta – aspetto centrale della pena civile – deve necessariamente reggersi a criteri elastici che demandino al giudice a quo le riflessioni opportune sulla quantificazione del danno che non deve essere ancorata ad un criterio rigido bensì fondarsi su una valutazione caso per caso in cui il ruolo del legislatore è solo quello di dettare i criteri di una siffatta valutazione.

Dunque, la quantificazione del punitive damage non può essere fatta a monte dal legislatore ma a valle dalle Corti di Giustizia che ben potranno perimetrare la liquidazione del danno alla effettiva gravità della condotta dell’incolpato.

Nell’individuare il criterio del doppio, quindi, a chi scrive appare che il legislatore peccato di superficialità nei confronti di un istituto – il punitive damage – che non ha solide basi culturali nel nostro paese e quindi a maggior ragione richiede un solido sforzo nell’individuare e costruire la norma.

Forse una più attenta analisi delle esperienze anglosassoni, avrebbe evitato di costruire una norma che al momento – nelle sue basi e nel suo perimetro – è anche erroneo definirla come una fattispecie di danno evento (o punitive damage) in quanto l’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012 non fa alcun riferimento alla gravità della condotta che, nel costrutto della norma, è al pari del danno conseguenza un corpo estraneo.

La norma in esame pone anche seri dubbi sul piano del diritto costituzionale ad una difesa effettiva sancito dall’art. 24 Cost.

Invero, l’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012 come criterio (apparentemente) volto a elasticizzare la sanzione del doppio fa salva la prova contraria.

Sul punto, la norma è assolutamente indeterminata con violazione dei principi di determinatezza e tassatività delle norme aventi natura sostanzialmente penale.

Una costruzione armoniosa del disposto normativo avrebbe imposto, anche in questo caso, di individuare dei criteri elastici affidati al prudente vaglio del giudice a quo.

Inoltre, bisogna osservare ancora che la norma capovolge ruoli e funzioni nel giudizio risarcitorio in quanto normalmente è la pubblica accusa a dover dimostrare il quantum del risarcimento e non viceversa. In altri termini, l’incolpato non solo è gravato da una sanzione fissa e non graduabile ma è ulteriormente gravato anche da una probatio diabolica che secondo i principi dell’ordinamento non gli spetterebbe affatto.

Quindi, la c.d. prova contraria, nel giudizio per danno all’immagine, è doppiamente elusiva di principi fondamentali in materia di riparto dell’onere della prova.

Tutte le discrasie segnalate hanno fatto si che la Corte di Appello della Corte dei Conti nel giudizio innanzi descritto con chiaro maquillage normativo ha di fatto disapplicato l’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012 perché la sua pedissequa applicazione avrebbe condotto ad una soluzione inaccettabile per l’incolpato e per i nostri principi giuridici.

La scelta della Corte di Appello – dettata dalla necessità di non rimettere alla Corte Costituzionale l’art. 1, comma 62, L. n. 190 del 2012 – però dà la stura ad un’ampia incertezza nel panorama giurisprudenziale che cade sulle spalle dei cittadini.

In questo panorama, per certi versi desolante, in cui l’incertezza del diritto la fa da padrone, non si non sperare in un risoluto intervento risolutore della Corte dei diritti dell’Uomo che rimetta ordine e giustizia in una normativa che appare il frutto, alla luce di tutte le osservazioni fatte, di un legislatore distratto e poco attento verso istituti così delicati che invece meriterebbero i più alti onori in punto di tecnica giuridica.


[1] Per un approfondimento sulla tematica si richiama: GIUNTA, Parametri dell’azione contabile per danno all’immagine, nota a sentenza corte dei conti, terza sezione giurisdizionale centrale di appello 31 marzo 2020, n. 66, in https://www.ildirittoamministrativo.it; D’ANGELO, Novità sul danno all’immagine, Nota a Corte dei Conti, Sez. Giur. Lombardia, 29 settembre 2020, n. 140, in https://dirittoeconti.it; PERROTTA, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, tra tendenze giurisprudenziali (espansive),scelte del legislatore(restrittive) e il nuovo codice di giustizia contabile, in Federalismi n. 8/2018; RAELI, Il danno all’immagine della P.A. tra giurisprudenza e legislazione, in Federalismi n. 14/2014; NUNZIATA, Danno all’immagine e reato prescritto: la giurisprudenza si rassegna alla legge, in Rivista della Corte dei Conti n. 6/2019; GRIPPAUDO, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione e il “buon uso del rinvio” (Nota a C. conti, sez. giur. Lombardia, 14 marzo 2022, n. 21), in https://dirittoeconti.it.

[2] Il danno all’immagine della PA ha origine pretoria. È stato cristallizzato a livello legislativo soltanto nel 2009, con l’introduzione D.L. n. 78(convertito con modificazioni in L. 102/2009)

[3] SOLA, considerazioni sul danno erariale: la fattispecie del danno all’immagine a margine dei recenti interventi della corte costituzionale, in Rivista della Corte dei Conti n. 5/2019

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, n. 310/2012.

[7] Sul punto si richiama lo scritto di Perrotta, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, tra tendenze giurisprudenziali (espansive), scelte del legisla-tore (restrittive) e il nuovo codice di giustizia contabile, in <www.federalismi.it>, 11 aprile 2018.  

[8] Corte conti, Sez. giur. reg. Umbria, n. 53/2017. Ma non mancano pronunce che affermano che “la diffusione della notizia (clamor fori) costituisca il modo attraverso il quale viene realizzato il nocumento alla reputazione e alla onorabilità dell’ente pubblico”, Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, n. 101/2017 

[9] Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, n. 134/2017. 

[10] Corte conti, Sez. riun., n. 10/2003.

[11] Prima dell’introduzione della norma de quo, la quantificazione del danno avveniva equitativamente, ex art. 1226 c.c., e veniva determinata in base a criteri di tipo oggettivo (Corte dei conti, Sez. giur. reg. Lazio, n. 81/2018,  ) – quale la gravità dell’illecito –, soggettivo (Corte conti, Sez. giur. reg. Veneto, sent. n. 591/2009.) – quale la posizione ricoperta dal soggetto – e sociale (Corte conti, Sez. giur. reg. Tren-tino-Alto Adige, Bolzano, n. 280/2007.) – quali la dimensione e rilevanza ente, oltre al clamor fori – individuati dalla giurisprudenza, in relazione alla gravità degli illeciti contestati.

[12] L’ articolo 6 della CEDU, rubricato “Diritto a un equo processo”, stabilisce: “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. 2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente finoa quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: (a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; (b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; (c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; (d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; (e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”. L’articolo 7 della CEDU, rubricato “Nulla poena sine lege”, stabilisce: “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. Il protocollo addizionale alla CEDU stabilisce all’art. 1, rubricato “Protezione della proprietà”: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

[13] Franzoni, danno punitivo e ordine pubblico, in Rivista di Diritto Civile, 1/2018, 293. Prosegue l’autore: “Seppur in assenza di una frode, una logica analoga e` perseguita dall’astreintes, il cui fine e` quello di garantire l’attuazione di un obbligo, laddove l’esecuzione in forma specifica potrebbe risultare inidonea. Chi ha interesse a ricevere l’adempimento, trova nelle astreintes una valida misura che garantisce la spontanea collaborazione dell’obbligato, poiche´ il timore della condanna sarebbe per lui il male peggiore. Ancora una volta lo Stato vede in questa figura la possibilita` di assicurarsi la compliance”

[14]Così, al riguardo, si esprimeva la Cassazione: “Nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione al pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro. Rimane estranea al sistema interno l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta (Cassazione Civile, I Sezione – 8 febbraio 2012, n. 1781, in foroplus).”.

[14] In merito alla letteratura sul tema, sia consentito richiamare F. it., 2016, I, c. 1973, con nota di E. D’ALESSANDRO, Riconoscimento in Italia di danni punitivi: la parola alle sezioni unite; in Corr. giur., 2016, p. 909, con nota di C. SCOGNAMIGLIO, I danni punitivi e le funzioni della responsabilita` civile; in Danno e resp., 2016, p. 827, con nota di P.G. MONATERI, La delibabilita` delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni unite; e di G. PONZANELLI, Possibile intervento delle sezioni unite sui danni punitivi; e in G. it., 2016, p. 1854, annotata da A. DI MAJO, Riparazione e punizione nella responsabilita` civile; in Danno e resp., 2012, p. 609, con nota di G. PONZANELLI, La cassazione bloccata dalla paura di un risarcimento non riparatorio.

 

[16] “Posto che la responsabilità civile non ha solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, ma persegue altresì la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria, non può ritenersi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi, dovendosi comunque verificare, ai fini del riconoscimento di una sentenza straniera che statuisca in tal senso, che essa sia stata resa nell’ordinamento d’origine su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa e i suoi limiti quantitativi (Cass. civ., sez. un., sent., 5 luglio 2017 n. 16601 in Corriere giur. 2017, 1042, con nota di CONSOLO;  in Danno e resp. 2017, 419, con nota di LA TORRE, CORSI, PONZANELLI, MONATERI , in Guida al dir. 2017, fasc. 33, 40, con nota di SACCHETTINI , in Giur. it. 2017, 1787, con nota di DI MAJO , in Arch. circ. ass. e resp. 2017, 687, in Riv. dir. internaz. 2017, 1305, in Resp. civ. e prev. 2017, 1596 (m), con nota di BRIGUGLIO , in Nuova giur. civ. 2017, 1399, con nota di GRONDONA , in Riv. corte conti 2017, fasc. 3, 520, con nota di QUAGLINI , in Banca, borsa ecc. 2017, II, 568, con nota di BANATTI , in Dir. mercato assic. e fin. 2017, 404, con nota di VENCHIARUTTI , in Dir. comm. internaz. 2017, 709, con nota di LOPEZ DE GONZALO, ZARRA)”.

[17] Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601

[18] Cass., Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601

[19] E’ stato autorevolmente evidenziato in dottrina: “Questo principio, che pure va attribuito a Beccaria, e` accolto in tutti gli ordinamenti occidentali, anche nell’VIII emendamento della Cost. americana e su questo si sofferma a lungo la sentenza in commento, come abbiamo gia` osservato in precedenza. L’estensore da` conto che anche negli USA, che hanno visto nascere la maggior parte delle controversie in tema di delibazione di sentenze di condanna al danno punitivo, si e` formato un orientamento che nega legittimita` ai danni cosiddetti grossly excessive. Gia` nel 1996 la Corte Suprema (caso BMW Supreme Court (Usa), 20-051996.) aveva ripudiato, con due sole opinioni dissenzienti, «questa configurazione dell’istituto, dodici anni dopo il percorso si era quasi ultimato. Nel mentre gran parte degli Stati disciplinavano normativamente l’istituto, sottraendolo a verdetti imprevedibili delle giurie (pur costituite, in origine, per garantire al danneggiante il giudizio dei suoi pari), la Supreme Court (20- 022007, caso Philip Morris) sanciva che nel diritto statunitense lede la due process clause, di cui al XIV emendamento della Costituzione, la concessione di danni punitivi basati sul valore del diritto di credito vantato da tutti coloro che non hanno instaurato la lite. E la sentenza EXXON (U.S. Supreme Court, 25 giugno 2008) e` giunta a stabilire anche un rapporto massimo di 1 a 1 tra importo della somma riconosciuta a titolo compensativo e liquidazione punitiva (Franzoni, danno punitivo e ordine pubblico, in Rivista di Diritto Civile, 1/2018, 298)»

[20] Franzoni, danno punitivo e ordine pubblico, in Rivista di Diritto Civile, 1/2018, 283.

[21] Anche la Corte Costituzionale, in alcuna pronunce, ha dato la stura a sanzioni civili afflittive. In un arresto molto importante (C. cost. 11 novembre 2011, n. 303, in F. it., 2012, I, c. 717) ha ritenuto legittima la normativa lavoristica diretta a «introdurre un criterio di liquidazione del danno di piu` agevole, certa ed omogenea applicazione», con l’effetto di «approssimare l’indennita` in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza», senza ammettere la detrazione dell’aliunde perceptum e cosı` facendo assumere all’indennita` onnicomprensiva «una chiara valenza sanzionatoria».

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