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Il lungo viaggio attraverso l’autodichia delle Camere, tra lavoratori, pianisti, appalti, giudici italiani ed europei

dell’Avv. Prof. Adriano Tortora

Sommario: 1. Premessa  – 2. Il periodo statutario. – 3. Il periodo repubblicano: le tre battaglie della Corte di Cassazione. – 4. La disciplina regolamentare dgli ogani giurisdizionali delle Camere. – 5. Le delimitazioni operate nel tempo dalla giurisprudenza. – 6. L’actio finium regundorum dopo le sentenza della Corte costituzionale. – 7. Il ricorso per Cassazione per violazione di legge. 8 – La giurisdizione della Corte dei Conti. – 9. Il controllo sulla legittimità anche costituzionale delle norme da applicare. – 10. Conclusioni.

  1. Premessa

La dottrina degli interna corporis acta nacque dapprima in Inghilterra all’epoca del conflitto tra Parlamento e Corona nel XVIII secolo. Successivamente si sviluppò soprattutto in Germania nella seconda metà dell’Ottocento –  in particolare in occasione del quarto Congresso dei giuristi nel 1863, dedicato al tema del sindacato formale delle leggi da parte della magistratura – e trovò in Rudolf von Gneist il suo epigono più noto. Anche se poi lo stesso Paul Laband autorevolmente sostenne che il controllo sul rispetto delle procedure parlamentari potesse essere fatto dal Sovrano in sede di promulgazione della legge.

Essi possono considerarsi gli atti interni degli organi costituzionali – ed in particolare, per tradizione, delle Camere – che, se pur a volte assumono rilevanza esterna per l’ordinamento generale dello Stato, dovrebbero essere sottratti al sindacato esterno di altri poteri, a garanzia della “indipendenza sovrana” degli enti da cui promanano.

Nella letteratura italiana la questione fu affrontata dapprima in modo un po’ confuso. Il primo a porre la problematica fu nel 1871 Giuseppe Saredo, il quale però a salvaguardia del principio supremo della certezza del diritto escluse la sindacabilità formale degli atti legislativi. Alle medesime conclusioni pervenne Emidio Pacifici Mazzoni nel 1880, sebbene più che altro a tutela della libertà e dell’indipendenza delle Camere. In quegli stessi anni Pasquale Grippo richiamò espressamente la dottrina degli interna corporis proprio per negare la sindacabilità formale delle norme legislative. Invece Alessandro Malgarini ed Emauele Gianturco si espressero a favore di un sindacato formale della legge da parte della magistratura con varie motivazioni.

Le vicende concrete, legate all’incertezza sulle aliquote votate dalle Camere nell’approvazione della legge 30 marzo 1878, n. 4390 sulle tariffe doganali, condussero a due pronunce della Corte di Cassazione (28 giugno 1886 e 11 novembre 1890) che affermarono esplicitamente che “l’indagine del magistrato sulla regolare fattura delle leggi deve sempre arrestarsi di fronte alle attestazioni tipiche della formula di promulgazione”.

Sarà poi Santi Romano in un famoso articolo sul Circolo giuridico di Palermo del 1899 a tentare di mettere ordine nella materia. Innanzitutto, gettò i presupposti per un pieno riconoscimento dell’insindacabilità degli interna corporis delle Camere, la qualenon riguarda solo l’attività legislativa ma anche quando il Parlamento opera “in tutt’altra attività”.  Tuttavia, si affrettò a precisare che l’insindacabilità non potesse essere estesa a quegli atti delle Camere che pongono in essere dei negozi di diritto privato, anche richiamando la legge 20 marzo 1865, secondo la quale tutte le controversie aventi ad oggetto diritti civili o politici sono rimesse alla giurisdizione ordinaria.

Quindi, la dottrina degli interna corporis si produsse nell’ambito del “controllo negato” (esterno da parte della magistratura) sull’iter formale della legge, ma poi inevitabilmente si riverberò nella collegata, ma distinta questione della c.d. “autodichia” delle Camere.

Infatti, l’autodichia – o, con terminologia ormai desueta, l’autodicastia – potrebbe essere definita in via di prima approssimazione, facendo ricorso alle stesse parole della Corte costituzionale (sentenza n. 262 del 2017), come “la potestà degli organi costituzionali di decidere attraverso organi interni le controversie che attengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei loro dipendenti” Tuttavia, proprio per quanto concerne l’autodichia delle Camere, questa configurazione non può che avere una valenza di partenza, quasi di delimitazione storicamente originaria, essendo o potendo essere l’oggetto delle controversie investenti il Parlamento ben più ampio, a cominciare dalle fattispecie concernenti ex dipendenti e candidati ai concorsi, parlamentari e ex parlamentari fino alla materia delle gare e degli appalti.

Anche se si tratta di un’attribuzione tradizionale degli organi costituzionali, non appare del tutto agevole se non impossibile rinvenire (sia ora che in passato) un fondamento di diritto positivo, che tutt’al più potrebbe essere di tipo indiretto e comunque non a carattere esplicito. Pertanto a ben guardare la diuturnitas della prerogativa in questione – che abbraccia pienamente anche il periodo statutario – si è consolidata pur in assenza di una specifica prescrizione di livello costituzionale; assenza a dir poco problematica in un ordinamento a Costituzione rigida come quello del 1948.  

Per queste ragioni si può arrivare alla constatazione che non si riscontrerebbe una grande differenza fra l’età della vigenza dello Statuto albertino ed il periodo repubblicano, nel senso che in entrambe le epoche il presupposto dell’autodichia delle Camere risiede in pronunce di organi giurisdizionali, seppur a volte richiamando consuetudini costituzionali o tradizioni consolidate.

Quindi, una prima conclusione anche in chiave diacronica potrebbe consistere nel fondamento giurisprudenziale della potestà de qua, nel senso che affermazione del principio, connessi limiti e conseguenze nell’ordinamento hanno un’origine prevalentemente giurisprudenziale, più ancora che scientifica, essendo stata in genere estremamente tiepida – se non critica o comunque silente – l’opinione della dottrina, anche durante il periodo pre-repubblicano.

  1. Il periodo statutario

In origine fu la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 415 del 9 novembre 1898, la quale declinò la propria giurisdizione privilegiando – rispetto alla natura oggettivamente amministrativa dell’atto impugnato (si trattava delle determinazioni della Presidenza della Camera sui progetti per la costruzione di una nuova aula) – la mancata emanazione dell’atto da parte di un organo soggettivamente appartenente all’amministrazione dello Stato in senso stretto, alla luce dell’art. 24 del R.D. 2 giugno 1889, n. 6166.

La dottrina non accolse con grande fervore questa conclusione formalistica. Tuttavia, gli argomenti classici per l’affermazione dell’autodichia furono poi gettati da un commento pur critico di Santi Romano, il quale evidenziava piuttosto come non potesse un organo del potere esecutivo (come reputava lui essere il Consiglio di Stato) giudicare gli atti amministrativi del potere legislativo.

Radicalmente contraria fu la nota a sentenza di Claudio Lessona, la cui posizione appare con le lenti dell’aujourd’hui molto vicina agli orientamenti di gran lunga prevalenti nella letteratura odierna. Dopo aver distinto la posizione delle Camere che legiferano da quella delle Camere che amministrano, sottolineava come loro atti di amministrazione interna lesivi di diritti altrui non potessero essere sottratti alla tutela giudiziaria e, in quanto atti posti in essere da “corpi amministrativi deliberanti” (secondo la formula del citato art. 24 allora vigente), dovessero essere affidati alla competenza del Consiglio di Stato.

Sul fronte della giustizia civile si ebbero le famose e pionieristiche decisioni del 28 giugno 1904 delle Sezioni unite e della II Sezione civile della Corte di Cassazione.

Nella sostanza, seppur con diversi esiti, dapprima il tribunale civile di Roma nel marzo del 1903 e successivamente la Corte di appello di Roma si erano pronunciati sull’azione civile per risarcimento dei danni derivanti da presunti inadempimenti rispetto a vincoli contrattuali assunti dalla Camera con due ingegneri per la realizzazione di un progetto di nuova aula, la cui esigenza poi era venuta meno a seguito di una delibera legislativa della Camera nel comitato segreto del 13 giugno 1902. Innanzitutto, le Sezioni unite della Cassazione confermarono la competenza dell’autorità giudiziaria, accogliendo l’argomento degli attori secondo cui la legittimità della deliberazione parlamentare, estranea del tutto al sindacato giurisdizionale, non poteva rappresentare un ostacolo pregiudiziale all’azione proposta per il lamentato inadempimento contrattuale.

Per incidens, si farà notare come tale argomentazione non sia molto dissimile da quella utilizzata nella recente sentenza della Corte di Cassazione (VI Sezione penale, 11 settembre 2018, n. 40347), la quale ha affermato la competenza del giudice penale a verificare la liceità della cosiddetta “frazione di condotta esterna” (vale a dire i comportamenti connessi), che eventualmente si leghi ex ante o ex post all’esercizio di un atto parlamentare tipico e come tale insindacabile ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Conseguentemente e successivamente, sempre il 28 giugno del 1904, la Seconda sezione civile della Cassazione si pronunciò sui motivi del ricorso (relatore ed estensore Mortara), reputando che nella fattispecie non potesse ravvisarsi la sussistenza di un rapporto contrattuale già perfezionatosi fra gli ingegneri e la Camera ed affermando che comunque un rapporto contrattuale preventivo non potrebbe vincolare la libertà nell’esercizio della sovrana funzione legislativa. Per questi motivi la Camera veniva condannata non al risarcimento del danno per mancata esecuzione del contratto, ma al pagamento del corrispettivo delle attività professionali svolte per conto della Camera. Al di là delle motivazioni giuridiche, veniva affermata la possibile responsabilità civile di una Camera, sussistendone i presupposti, se avesse agito iure privatorum e quand’anche alla base vi fossero le conseguenze di una delibera di tipo legislativo

Può ricordarsi altresì una dimenticata ma molto sottile sentenza del tribunale civile di Roma del 19 giugno 1925, la quale affermò si l’improponibilità di un’azione promossa da un dipendente della Camera con riferimento all’applicazione di disposizioni regolamentari in materia previdenziale, argomentando che nel rapporto sorto fra le Camere ed un loro funzionario è preminente l’elemento del diritto pubblico e che quindi esso non dà luogo a veri e propri diritti soggettivi. Tuttavia, il tribunale affermava implicitamente anche la propria competenza, laddove “si tratti del pagamento dello stipendio o di altra indennità e salve precise disposizioni regolamentari” che possano dar vita a diritti subbiettivi veri e propri”.

Netta fu invece la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 490 del 12 agosto 1927, che dichiarò improponibile il ricorso di un impiegato della Camera contro la sua destituzione (fra l’altro avvenuta in realtà per motivi politici) e ribadì la sua incompetenza a sindacare gli atti di amministrazione della Camera anche relativi al rapporto di impiego dei suoi dipendenti. Ma nella motivazione si coglie un passo in più, laddove viene richiamato l’articolo 61 dello Statuto albertino (sulla autonomia regolamentare delle Camere) legittimante l’assoluta indipendenza dal potere esecutivo delle stesse Camere, che non muterebbero la natura di organi legislativi anche quando compiono atti che per il loro contenuto sono amministrativi. 

Incidentalmente vanno poi ricordati – ma ai fini del controllo del rispetto dei regolamenti e delle prassi parlamentari durante l’ter legis – i contenuti del famoso parere di Santi Romano del 2 aprile 1938. Infatti, riguardo alle disposizioni statutarie e regolamentari sul procedimento legislativo seguito per l’approvazione della legge sul primo maresciallato dell’Impero, il Presidente del Consiglio di Stato precisava che “si tratta di norme che attengono ai c.d. interna corporis, che sono esternamente sottratti ad ogni controllo, che non sia esso stesso interno, cioè del Presidente. Ciò è pacificamente ammesso dalla dottrina e discende dalla prerogativa attribuita dall’art. 61 dello Statuto a ciascuna Camera di determinare liberamente il modo secondo il quale abbia ad esercitare le proprie funzioni; prerogativa che si esercita non solo dettando, in questa materia proprie norme interne ma anche giudicando caso per caso, del modo con cui, sia queste norme interne, sia le norme statutarie e, in genere, legislative, siano state osservate a proposito di una data legge. Si noti che questo principio non è esclusivo del diritto italiano, ma è consacrato da una consuetudine generale di diritto parlamentare, che fa capo al diritto inglese”.

Sul finire della vigenza dello Statuto vanno ricordate infine le complesse querelles che hanno caratterizzato le vicende dei giudizi di epurazione dei dipendenti della Camera e del Senato. In particolare, va segnalato il famoso carteggio tra Vittorio Emanuele Orlando, nella veste di Presidente della Camera, e i vari esponenti dell’Alto commissariato per le sanzioni al fascismo, in esito al quale le Camere ebbero modo di affermare quella che storicamente può essere considerata la prima vera e propria “pietra miliare” dell’autodichia. Il principio proclamato era il seguente: “la Camera, organo costituzionale, doveva essere considerata esclusiva titolare del diritto di procedere all’epurazione dei suoi dipendenti, così come è sovrana nella loro assunzione, nella risoluzione e nel regolamento patrimoniale dei rapporti” (Astraldi).

Tuttavia, non può non farsi notare la circostanza che le due Camere optarono per soluzioni diverse, pur sempre interne e senza la possibilità di appelli di secondo grado all’esterno. Infatti, l’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati nominò il 18 luglio 1944 una Commissione per l’epurazione e la riorganizzazione degli uffici, composta dal Vice Presidente Micheli, che la presiedette, e dai due questori Mazzolani e Veroni. Fu poi istituita una seconda Commissione per l’epurazione (Presidente Bocconi e componenti Mazzolani e Bencivegna) per esaminare la posizione dei dipendenti tornati dalla sede di Venezia. Queste Commissioni avrebbero poi riferito le proprie conclusioni all’Ufficio di Presidenza stesso, ai fini dell’adozione delle deliberazioni definitive. Invece, presso il Senato – fermo restando che le deliberazioni sarebbero state adottate nella sua autonomia dal Consiglio di Presidenza – il Presidente Tomasi della Torretta nominò una Commissione, che potremmo definire “semi-esterna”, in quanto era presieduta da un consigliere di Stato (Raffaele Montagna), mentre gli altri due componenti erano due ex dirigenti del Senato stesso, uno indicato dall’Amministrazione e l’altro dall’Alto commissario Mario Scoccimarro, in linea a ben guardare con le prescrizioni generali del citato articolo 18 del decreto n. 159 del 1944. La Commissione era composta da: Raffaele Montagna, presidente, Fortunato Pintor e Giulio Mantovani.

  • Il periodo repubblicano: le tre battaglie della Corte di Cassazione

All’alba del periodo repubblicano ci fu un timido ed impervio tentativo di perforare quel particolare e tradizionale aspetto di giurisdizione interna che è la verifica (esclusiva) delle elezioni da parte di ciascuna Camera, ma il Consiglio di Stato (sentenza 20 ottobre 1950, n. 504) dichiarò inammissibile il ricorso, ritenendo che il provvedimento con il quale il Presidente dell’Assemblea costituente aveva rifiutato di riportare in discussione la deliberazione di annullamento dell’elezione di un deputato non costituisse un atto amministrativo impugnabile in sede giurisdizionale.

Quanto alla sindacabilità dei vizi dell’iter legislativo, sono noti i contenuti della sentenza n. 9 del 1959 della Corte costituzionale circa la verifica esterna da parte di essa del rispetto delle regole procedurali presenti nella Costituzione, con esclusione di quelle previste nei soli Regolamenti parlamentari (con il conseguente “crollo – a metà – dell’antico feticcio degli interna corporis“, dal titolo del celebre commento di Paolo Barile). Tutt’ora i principi di quella sentenza del 1959, anche con riferimento ad altri aspetti (v. ad esempio l’ordinanza della Consulta n. 17 del 2019), rappresentano i paletti della giurisprudenza costituzionale circa il controllo del rispetto delle norme di diritto parlamentare.

Circa l’autodichia in epoca repubblicana le prime pronunce si debbono al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia (v. sentenze n. 65 e n. 88 del 1952), che negò la sua competenza a sindacare gli atti dell’Assemblea regionale siciliana, nella sostanza ricalcando la pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato a proposito delle Camere. Poi però la Corte costituzionale, con la sentenza 30 giugno 1964, n. 66, in sede di conflitto fra poteri aveva reputato non spettare la prerogativa dell’autodichia all’Assemblea regionale siciliana, confermando la sentenza delle SS.UU.CC della Cassazione 15 luglio 1963, n. 1933, che – investita per la prima volta della questione – aveva annullato la sentenza 15 giugno 1962, n. 260 del Consiglio di giustizia amministrativa confermativa dell’autodichia dell’ARS.

Ai nostri fini di un certo interesse appare la precisazione della Corte costituzionale – quasi opposta rispetto al dettato della sentenza n. 262 del 2017, ancorché effettuata dopo aver comunque sottolineato la differente posizione costituzionale delle Camere rispetto all’Assemblea regionale siciliana –  secondo cui il potere di regolamento dell’ARS stessa “offre la possibilità di dettare norme di organizzazione dei servizi e degli uffici e di disciplina dei rapporti coi dipendenti secondo l’autonomo apprezzamento che l’Assemblea fa delle proprie esigenze, ed il sindacato giurisdizionale sulla conformità dei singoli atti a queste norme non appare in verità tale da turbare quella libertà (corsivo nostro, sc.)”.

A livello nazionale gli anni passarono veloci e nei vari decenni la questione sembrò sprofondata “nel dimenticatoio” – anche grazie al costume del personale delle Camere di sopire quanto più possibile qualsiasi vicenda contenziosa di ordine personale – fino a quando alla fine degli anni Settanta, non tanto sull’onda del rinnovamento anche giuridico del periodo successivo alla contestazione studentesca, ma quasi casualmente per via di una controversia di un impiegato del Senato, tornò in auge la questione della possibile denegata giustizia nei riguardi dei dipendenti delle Camere.

Infatti, con ordinanza dell’11 luglio 1977, n. 315, la Corte di Cassazione (Sezioni unite civili) dispose la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della questione, sollevata d’ufficio, di legittimità costituzionale dell’art. 12 del Regolamento del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971 e comunque della norma attributiva al Senato della Repubblica dell’autodichia nei confronti  del personale dipendente, per contrasto con gli artt. 24, 113, 101, comma 2,e 108, comma 2, della Costituzione.

Valutando la non manifesta infondatezza della questione, la Cassazione sottolineava anzitutto che due sono gli orientamenti interpretativi sostenibili a proposito dell’autodichia in argomento: a) che si tratti, cioè, di una limitazione della portata generale delle norme sulla tutela giurisdizionale nel senso di escludere che per le controversie in materia d’impiego dei dipendenti dal Senato sia dato un giudice nell’ordinamento generale; b) che si tratti di una limitazione della portata delle dette norme nel senso di istituire nell’ordinamento generale, per le controversie in argomento, la giurisdizione speciale della stessa Camera e di un’articolazione di essa. Secondo la Cassazione delle due interpretazioni dianzi indicate come sostenibili, è preferibile la seconda.

Il problema dell’autodichia sarà poi affrontato dalla Corte costituzionale con la sentenza del 6 maggio 1985, n. 154, che ha dichiarato inammissibile la citata questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, comma 1, del Regolamento del Senato, e 12, comma 3, del Regolamento della Camera dei deputati, sollevata con tre distinte ordinanze dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (infatti v. poi anche le ordinanze 10 luglio 1980, n. 315 e n. 316).

La Corte premette di condividere i dubbi espressi dal giudice a quo sulla compatibilità dell’autodichia delle Camere con i princıpi costituzionali in tema di giurisdizione. Ma esclude la possibilità di un sindacato sui Regolamenti parlamentari, non rientrando negli atti con forza di legge ex art. 134 Cost. Questa conclusione si basa, oltre che sul “dato testuale”, sulla collocazione del Parlamento “al centro del sistema” della democrazia repubblicana, per cui alle Camere spetta “una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.”.

La Corte di Cassazione (SS.UU.CC., 10 aprile 1986, n. 2546 e in senso sostanzialmente conforme, SS.UU.CC., 23 aprile 1986, n. 2861) prende atto che la Corte costituzionale ha escluso l’applicabilità` dell’unica tutela offerta, in astratto, dall’ordinamento nei casi di sospetta incostituzionalità di atti normativi primari. Non ritiene percorribile – essendo già stata disattesa al momento di sollevare la questione di legittimità costituzionale – la via di considerare interpretabili secundum constitutionem gli articoli 12, comma 1, e 12, comma 3, dei due Regolamenti, nel senso cioè che prevedano rimedi amministrativi interni non escludendo l’ordinaria tutela giurisdizionale. Al momento di decidere sul regolamento di giurisdizione, la Corte di Cassazione ha innanzi l’opzione interpretativa già` delineata nelle ordinanze di remissione: negare al personale delle Camere l’accesso a qualsiasi giurisdizione; ovvero, supporre l’esistenza di una speciale giurisdizione “domestica”. La Cassazione sceglie quest’ultima soluzione perché essa offende “meno gravemente (e cioè, eventualmente, soltanto sotto i profili della indipendenza, terzietà ed imparzialità, nonché della difesa e del contraddittorio) i precetti costituzionali contenuti negli artt. 24 e 113 Cost.”.  Sulla base di queste considerazioni la formula conclusiva del regolamento di giurisdizione non sarà quella del difetto assoluto, ma del difetto di giurisdizione dei giudici comuni, ordinario e amministrativo (Midiri).

Va comunque rilevato che la stessa Corte costituzionale successivamente in fattispecie analoghe (v. le due ordinanze del 16 dicembre 1993, n. 444 e n. 445) – pur richiamando espressamente la pronuncia del 1985 e confermando l’inammissibilità dei regolamenti parlamentari quale oggetto dei giudizi incidentali di costituzionalità – tuttavia si è limitata a ribadire che “il problema dell’ammissibilità del sindacato di legittimità costituzionale sui regolamenti parlamentari va risolto, alla stregua dell’art. 134 Cost., in negativo”, senza nemmeno accennare alla posizione centrale delle Camere nel sistema costituzionale, potendosi ipotizzare un implicito revirement rispetto alle argomentazioni forse un po’ troppo enfatiche del 1985 circa la centralità del Parlamento legibus solutus.

Vari decenni dopo si assiste ad un nuovo risveglio. Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (ordinanza 6 maggio 2013, n. 136) rilanciano la problematica, riproponendo nella sostanza i medesimi rilievi e quindi sollevando d’ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del Regolamento del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, nella parte in cui attribuisce al Senato il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti dei propri dipendenti. In particolare, la Cassazione sottolineava la differenza tra l’esercizio delle funzioni legislative o politiche delle Camere, da un lato, e gli atti con cui le Camere provvedono alla propria organizzazione, dall’altro.

Anche in questa occasione la Corte costituzionale (sentenza 9 maggio 2014, n. 120) ha dichiarato inammissibile la questione sollevata, in quanto “i regolamenti parlamentari non rientrano espressamente fra le fonti-atto indicate dall’art. 134, primo alinea, Cost. – vale a dire fra le leggi e gli atti aventi forza di legge che possono essere oggetto del sindacato di legittimità” della Corte.

Tuttavia, la Corte proseguiva definendo l’autodichia “questione controversa, che, in linea di principio, può dar luogo ad un conflitto fra i poteri”, accennando anche ad una sorta di monito comparatistico nel rilevare che “negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista”.

Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione per la terza volta “tornavano alla carica”, in questo caso (con ordinanze rispettivamente del 19 dicembre 2014 e del 19 gennaio 2015) sollevando due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica e del Presidente della Repubblica, in relazione alle rispettive disposizioni regolamentari che disciplinano la tutela giurisdizionale nelle controversie di lavoro dei propri dipendenti.

In particolare, la Cassazione chiede di dichiarare che non spettava al Senato deliberare tali disposizioni, in via principale nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma (in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale), 108, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, precludono l’accesso dei dipendenti del Senato alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro insorte con l’Amministrazione del Senato; e in via subordinata nella parte in cui, in violazione degli artt. 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost., non consentono il ricorso in Cassazione per violazione di legge (art. 111, settimo comma, Cost.) contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali previsti da tali disposizioni.

La Corte costituzionale (sentenza 13 dicembre 2017, n. 262) ha poi respinto i due conflitti di attribuzione con una serie di argomentazioni.

Preliminarmente, la Consulta fa presente che la stessa autodichia “costituisce manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali, a quest’ultima strettamente legata nella concreta esperienza costituzionale”.

Dopo aver richiamato l’art. 64, primo comma, Cost., si sottolinea che “l’autonomia normativa logicamente investe anche gli aspetti organizzativi, ricomprendendovi ciò che riguarda il funzionamento degli apparati amministrativi serventi, che consentono agli organi costituzionali di adempiere liberamente, e in modo efficiente, alle proprie funzioni costituzionali”.

Tuttavia, questo argomento per la Corte rappresenta anche un confine per l’autodichia, non spettando agli organi costituzionali utilizzare l’autonomia normativa “né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali). Del resto, queste ultime controversie, pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune”.

La Corte puntualizza altresì che “la tutela delle posizioni giuridiche dei dipendenti, nelle controversie che li oppongano all’organo costituzionale, risulta assicurata per il tramite dell’istituzione di organi interni e procedure di garanzia variamente conformate, in un contesto che al tempo stesso consente che l’interpretazione e l’applicazione della specifica normativa approvata in materia dagli organi costituzionali sia sottratta ad ingerenze esterne.

La tutela dei dipendenti è quindi assicurata non già attraverso un giudice speciale ex art. 102 Cost., ma mediante organi interni non appartenenti all’organizzazione giudiziaria, in tanto giustificati in quanto finalizzati alla migliore garanzia dell’autonomia dell’organo costituzionale”.

Con quest’ultima prospettazione la Corte respinge anche la seconda richiesta formulata, nel senso che, “non essendo stati configurati gli organi di autodichia quali giudici speciali, avverso le loro decisioni non sarebbe neppure configurabile – come richiesto in via subordinata dalla ricorrente – il ricorso ex art. 111, settimo comma, Cost.”.

Dopo due “istanze” della Cassazione e dopo due pronunce della Consulta, la vicenda all’ordine di tutto si conclude mestamente con un’ordinanza di estinzione del procedimento per intervenuta rinuncia al ricorso (Cassazione, 22 maggio 2018, n. 12569).

  • L’ulteriore giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo

Un ulteriore tassello nella ricostruzione degli ambiti di autodichia delle Camere è rappresentato dalla nota sentenza della Corte cost. 2 novembre 1996, n. 379, con la quale è stato accolto un ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Camera dei deputati nei riguardi della magistratura (la

c.d. “sentenza sui pianisti”), ritenendosi insussistente la giurisdizione del giudice penale con riferimento al preteso falso in atto pubblico dovuto al voto espresso da un deputato sulla postazione di voto di altro deputato, al momento assente. In particolare, “dai principi costituzionali, che definiscono la posizione delle Camere nei confronti del potere giurisdizionale, risulta un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare garantiti dagli artt. 64, 72 e 68 Cost. e sottratti al diritto comune (che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà), con la conseguenza che sono coperti da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all’esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell’autonomia costituzionale delle Camere. Di tal che, allorquando il comportamento di un componente di una Camera sia sussimibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all’organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori, mentre, allorquando un qualche aspetto del comportamento stesso esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la sua disciplina deve prevalere la grande regola dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 Cost.)”

Ma un vero e proprio punto di svolta per la tenuta del sistema italiano di autodichia può essere considerata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 29 aprile 2009 (ricorsi nn. 17214/05, 20329/05 e 42113/04 – Savino ed altri contro Italia), la quale ha sotto il profilo generale affermato la compatibilità del sistema italiano di autodichia con l’art. 6 CEDU, in base al quale le controversie debbono essere esaminate sı` da giudici indipendenti, ma non necessariamente da giudici incardinati in apparati che rispondano alla nozione classica di potere giudiziario.

Ma non basta: gli stessi regolamenti parlamentari sono fonti sufficientemente conoscibili e come tali idonei a soddisfare il requisito della “precostituzione per legge” di cui allo stesso art. 6 CEDU. Invece, quanto alla composizione degli organi di autodichia della Camera, la Corte di Strasburgo – pur ritenendo che la presenza di deputati non può far di per se´ dubitare dell’indipendenza di questi organi giurisdizionali – tuttavia ha considerato sufficiente a far sorgere dubbi sulla imparzialità dell’organo di secondo grado il fatto che la Sezione giurisdizionale è interamente composta da membri facenti parte dell’ufficio di Presidenza, vale a dire dell’organo competente a decidere le principali questioni amministrative della Camera stessa.

  • La disciplina regolamentare degli organi giurisdizionali delle Camere

Tenendo conto forse del disagio espresso sia dalla Corte costituzionale che dalla Cassazione nel 1985 e nel 1986, i due rami del Parlamento, con distinte deliberazioni del Consiglio di Presidenza del Senato e dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, hanno poi prontamente dettato una nuova disciplina della materia del contenzioso interno, prevedendo forme e tempi per i singoli atti del processo, istituendo garanzia di difesa e soprattutto introducendo una norma di riconoscimento, a valenza generale, di diritti e di interessi legittimi.

A) Il Nuovo Regolamento interno degli uffici e del personale del Senato, contenente le norme sul contenzioso, venne approvato dal Consiglio di Presidenza il 18 dicembre 1987 ed emanato con d.P.S. 10 febbraio 1988, n. 6314. Ora questa parte è confluita nel testo unico delle norme interne del 2003 (emanato con d.P.S. 11 dicembre 2003, n. 9962), cui vanno aggiunte le integrazioni e le modifiche di cui ai dd.P.S. 5 dicembre 2005 e 1° marzo 2006).

La cognizione dei ricorsi avverso gli atti amministrativi ritenuti illegittimi è demandata a due collegi (la Commissione contenziosa per il primo grado; il Consiglio di garanzia per il secondo), situati in posizioni di indipendenza rispetto agli organi di amministrazione attiva; ogni competenza in merito è sottratta al Consiglio di Presidenza ed il Presidente del Senato interviene solo per rendere esecutive, con proprio decreto, le decisioni dei due collegi

La normativa interna fa riferimento, con clausola di carattere generale, agli atti e provvedimenti dell’Amministrazione, comprese le decisioni adottate dal Consiglio di disciplina, per la tutela di diritti ed interessi legittimi. La cognizione dei due organi è limitata ai soli profili di legittimità.

Inoltre, a seguito della modifica deliberata dal Consiglio di Presidenza il 6 dicembre 1990, possono fare ricorso agli organi contenziosi del Senato anche i candidati alle prove concorsuali.

Infine – anche a seguito della giurisprudenza amministrativa che ha affermato la sussistenza della competenza giurisdizionale delle Camere non in termini astratti, ma a condizione che nella loro autonomia siano adottate specifiche norme derogatorie – il Consiglio di Presidenza in data 5 dicembre 2005 ha approvato un regolamento per la tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento. Si tratta del contenzioso riguardante, ad esempio, i bandi di gara, le aggiudicazioni, i contratti con gli esterni, nonché le stesse controversie con senatori o ex senatori.

La Commissione contenziosa è nominata all’inizio di ogni legislatura con decreto del Presidente del Senato ed è` composta di tre senatori, un consigliere parlamentare ed un dipendente scelto dal del Senato su una terna eletta da tutti i dipendenti di ruolo. La Commissione elegge il Presidente ed il Vicepresidente, scegliendoli tra i senatori.

Per l’esame dei ricorsi non riguardanti i dipendenti l’organo di primo grado rimane la Commissione contenziosa, anche se con una composizione parzialmente differente (al posto dei 2 dipendenti dell’Amministrazione, 2 membri nominati dal Presidente del Senato nell’ambito di determinate categorie di esperti giuridici), mentre in secondo grado non è prevista alcuna variante nella composizione del Consiglio di garanzia.

Infatti, all’inizio di ogni legislatura il Presidente del Senato, sentito il Consiglio di Presidenza, nomina anche il Consiglio di garanzia, organo di appello composto di cinque membri scelti fra senatori appartenenti a determinate categorie di esperti giuridici (magistrati, professori ordinari o associati in materie giuridiche, avvocati dello Stato o del libero foro). A queste stesse categorie debbono appartenere pure i senatori componenti dell’organo di primo grado. Il Consiglio di garanzia procede poi ad eleggere il Presidente ed il Vicepresidente.

A salvaguardia della continuità nella tutela giurisdizionale, la Commissione contenziosa ed il Consiglio di garanzia sono gli unici organi del Senato (a parte le delegazioni parlamentari internazionali) a godere di una sorta di “super prorogatio“, nel senso che continueranno a svolgere le loro funzioni anche nella legislatura successiva fino alla ricostituzione dei nuovi organi. Per tutti gli organi contenziosi sono previsti anche membri supplenti.      

B) L’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati ha approvato il Regolamento per la tutela giurisdizionale dei dipendenti nella riunione del 28 aprile 1988, reso esecutivo con decreto del Presidente della Camera n. 420 del 16 maggio successivo e in seguito più volte modificato (da ultimo il 19 ottobre 2009). Il testo è stato poi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 243 del 19 ottobre 2009. Tale Regolamento istituisce quale organo di prime cure una Commissione giurisdizionale per il personale o per i candidati ai concorsi con il compito di deciderne i ricorsi.

La Commissione giurisdizionale è nominata all’inizio della legislatura con decreto del Presidente della Camera ed è composta di sei membri designati, nel modo seguente, tra i deputati in carica appartenenti a determinate categorie di esperti giuridici (magistrati, professori universitari in materie giuridiche, avvocati dello Stato o del libero foro):

a) due membri scelti mediante sorteggio da un elenco di otto nominativi formato dal Presidente della Camera;

b) due membri scelti mediante sorteggio da un elenco di otto nominativi formato dal Segretario generale;

c) due membri scelti mediante sorteggio da un elenco di otto nominativi formato dalle organizzazioni sindacali di intesa fra loro ovvero, in mancanza di accordo, mediante sorteggio da un elenco di nominativi designati in ragione di due da ciascuna delle organizzazioni sindacali stesse.

Il Presidente ed il Vice Presidente della Commissione sono designati dal Presidente della Camera fra i componenti della Commissione stessa.

Sono impugnabili gli atti e i provvedimenti, anche di carattere generale, dell’Amministrazione; gli atti di svolgimento di procedure concorsuali, le decisioni in materia disciplinare, finanche i provvedimenti degli organi della Camera aventi contenuto di atto politico o di alta amministrazione e quelli riguardanti le nomine a scelta e le assegnazioni e trasferimenti ai vari servizi ed uffici. In alcuni casi l’esame dei ricorsi è esteso al merito, anche se all’allargamento dell’ambito della cognizione non fa riscontro l’allargamento dei poteri di decisione, limitati in ogni caso all’annullamento degli atti impugnati.

Sempre in direzione di un’estensione della tutela giurisdizionale di tipo interno, l’Ufficio di Presidenza della Camera (con deliberazione del 22 giugno 1999, n. 155, resa esecutiva con decreto presidenziale del 22 giugno 1999, n. 1099) ha approvato un regolamento per la tutela giurisdizionale relativa agli atti di amministrazione della Camera dei deputati non concernenti i dipendenti o i candidati ai concorsi (ad esempio, in materia di gare e di appalti a ditte esterne). Anch’esso, comprensivo delle successive modifiche, è stato poi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 243 del 19 ottobre 2009.

In primo grado è stato quindi istituito un apposito Consiglio di giurisdizione, composto da tre deputati appartenenti a determinate categorie di esperti giuridici (magistrati, professori universitari in materie giuridiche, avvocati dello Stato o del libero foro) nominati dal Presidente della Camera, che procede anche a designarne il Presidente.

Originariamente entrambi i regolamenti di tutela giurisdizionale, approvati dalla Camera nel 1988 e nel 1999, prevedevano che le decisioni degli organi di primo grado fossero impugnabili dinanzi all’Ufficio di Presidenza, con la partecipazione del Segretario generale e di un rappresentante del ricorrente. Le controversie non particolarmente rilevanti venivano decise da un’apposita sezione giurisdizionale dell’Ufficio di Presidenza stesso.

Sennonché – a seguito della citata pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo –  l’Ufficio di Presidenza della Camera, nella riunione del 6 ottobre 2009, ha approvato due distinte deliberazioni recanti modifiche ai due regolamenti di tutela giurisdizionale, istituendo il Collegio d’appello, che giudica in via definitiva le impugnazioni delle sentenze della Commissione giurisdizionale e del Consiglio di giurisdizione e sopprimendo quindi la competenza dell’Ufficio di Presidenza.

Il Collegio d’appello è composto da 5 deputati titolari, in possesso dei consueti requisiti tecnico-professionali e nominati dal Presidente ella Camera, che sceglie altresì il Presidente dell’organo. 

Fanno parte dei tre organi giurisdizionali della Camera anche membri supplenti, che subentrano in caso di assenza o di impedimento.

Tra i due sistemi processuali esistono molte somiglianze ma anche rilevanti differenze, come ad esempio la composizione degli organi di primo grado. Entrambi hanno previsto un doppio grado di giudizio, ora con un apposito organo distinto anche alla Camera. La disciplina del processo appare ispirata alla esigenza di rapidità del giudizio e contiene semplificazioni rispetto al processo amministrativo, che viene assunto comunque come processo di riferimento ed alla cui disciplina si rinvia per quanto non previsto e disciplinato dai regolamenti specifici.

Di recente (dal 2022) anche gli organi di primo e secondo grado della Camera funzionano senza soluzione di continuità fra una legislatura e l’altra, data la loro natura giurisdizionale, mediante la proroga delle funzioni degli organi uscenti fino alla ricostruzione dei nuovi.

  • Le delimitazioni operate nel tempo dalla giurisprudenza.

Nel corso degli ultimi decenni si è avuta una copiosissima giurisprudenza, in particolare degli organi della giustizia amministrativa e della Corte di Cassazione, che ha via via delimitato i confini materiali dell’autodichia delle Camere.

Per quanto concernel’esclusione di giurisdizioni esterne anche nel caso delle procedure concorsuali si veda. soprattutto Corte di Cassazione, SS.UU.CC., ordinanza 10 giugno 2004, n. 11019, nonché TAR Lazio, Sez. I, ordinanze n. 4784 del 2007 e n. 7979 del 2008. Comunque, già la Corte di Cassazione Cass., SS.UU.CC., ordinanza 18 febbraio 1992, n. 1993 aveva affermato il principio secondo cui la determinazione dei criteri di scelta dei propri dipendenti e le procedure di ammissione sono espressione di quella stessa autonomia riconosciuta ai due rami del Parlamento sui rapporti costituiti con i propri dipendenti.

Più complessa e ondivaga la posizione della giustizia amministrativa circa le gare e gli appalti, che in un primo tempo aveva ammesso la propria competenza in assenza di specifica normativa interna delle Camere, poi aveva preso atto della tutela giurisdizionale ad hoc nel frattempo apprestata dalle Camere ed infine – dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017 – ha ripreso a decidere ricorsi in materia.

Per la Camera (prima del 1999) infatti il Consiglio di Stato (Sez. IV, ordinanza n. 22064 del 20 ottobre 1998) aveva ritenuto che la materia degli appalti “non sembra rientrare tra quelle per cui opera la riserva originaria di autodichia”, ma poi (in merito alla stessa controversia) il TAR Lazio (Sez. I, sentenza n. 698 del 2000), prendendo atto proprio delle citata riforma del 1999, che ha trasformato in diritto positivo una prassi già vigente, ha dichiarato conseguentemente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (v. analogamente Tar Lazio, Sez. I, sentenze n. 3863 del 1999 e n. 2905 del 2005).

Sempre prima del 1999 possono altresì ricordarsi in sede cautelare due ordinanze del Consiglio di Stato (Sez. IV, 21 ottobre 1998, n. 1699, e Sez. IV, 10 novembre 1995, n. 1589), che sostanzialmente avevano affermato la competenza del giudice amministrativo su atti amministrativi delle Camere lesive di interessi legittimi di terzi estranei; nonché l’ordinanza del TAR Lazio, Sez, III-ter, n. 188 del 1996, in cui la competenza giurisdizionale veniva affermata “in mancanza di uno specifico regolamento”. V. però, sempre in sede cautelare, TAR Lazio, Sez. I, ordinanza n. 2128 del 1998, che aveva comunque affermato il difetto di giurisdizione. Addirittura la VI Sezione del Consiglio di Stato (ord. 11 giugno 1998, n. 1133) si era pronunciata in sede cautelare su di un atto di nomina, effettuato d’intesa tra i Presidenti della Camere, relativo all’Antitrust.

Exempli gratia  per quanto concerne il Senato si veda TAR Lazio, Sez. I, ordinanza n. 4761 del 2005, che ha rigettato una richiesta di misura cautelare riguardante una gara, affermando la propria giurisdizione “in assenza di specifica normazione del Senato sull’esercizio della propria potestà di rango costituzionale”; controversia poi proseguita nel merito in primo grado (TAR Lazio, Sez. I, sentenza n. 1030 del 2006) e in appello (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n. 3008 del 2007), con reiezione del ricorso di una ditta ed affermazione della propria giurisdizione.

 Successivamente si sono avute varie pronunce che hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a seguito dell’adozione di un’apposita disciplina: Tar Lazio, Sezione I, sentenze 21 dicembre 1999, n. 3863 e 4 febbraio 2000, n. 698, nonché ordinanza 1° settembre 2005, n. 4761. Ancora: TAR Lazio, Sezione I, sentenze 11 febbraio 2006, n. 1030, 7 marzo 2007, n. 4784 e 14 giugno 2007, n. 5462, nonché sentenza 25 giugno 2012, n. 5779. Infine, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 8 giugno 2007, n. 3008.

In seguito un’interessante sentenza del TAR Lazio (Sez. I, sentenza n. 5779 del 2012) ha reputato compatibile il sistema di autodichia del Senato con la direttiva 2007/66/CE in materia di appalti pubblici circa la garanzia del pieno rispetto del diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. Invece, in passato la competenza del giudice amministrativo era stata ritenuta anche coerente “con la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle CE (che con la sentenza 17 settembre 1998, in C-323/96 ha rilevato che le direttive sugli appalti pubblici si applicano anche nei confronti degli organi del potere legislativo, da qualificare come amministrazioni aggiudicatrici” (Consiglio di Stato, IV Sez., sentenza n. 3008 del 2007).

Come ricordato, la sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017 contiene un riferimento esplicito agli appalti, quale materia tipica riguardante “terzi” e quindi esclusa dall’autodichia. Ed in effetti su di essa si sono fondate varie pronunce del Tar Lazio (I sezione, sentenze n. 4183 del 2020, n. 9134 e n. 9268 del 2018) per respingere l’eccezione del difetto di giurisdizione (recte, del difetto di competenza del giudice amministrativo) nei riguardi di appalti della Camera (quella del 2020) e del Senato (quelle del 2018).

In particolare, nella sentenza più recente viene sottolineato in modo netto come, alla luce delle pluricitate sentenze della Corte del 2014 e del 2017, la previsione del regolamento degli organi di autodichia “non possa estendersi anche alle controversie in materia di appalti, le quali hanno la loro disciplina in atti di normazione statale e comunitaria e non riguardano questioni interne all’organo costituzionale. La previsione del regolamento in discussione è, peraltro, di un tenore tale da non offrire alcuno spunto per ritenere che essa abbia ad oggetto controversie che riguardino rapporti con soggetti terzi, in alcun modo assimilabili a quelle relative ai dipendenti della Camera o alle procedure di reclutamento”.

Tale decisione è stato poi appellata presso il Consiglio di Stato, che con sentenza n. 4140 del 2021 ha confermato la competenza del giudice amministrativo in materia di appalti. Nello specifico, viene precisato che “posto che la materia dell’affidamento a terzi dei contratti di lavori, servizi e forniture – pur involgendo l’acquisizione, da parte dell’amministrazione della Camera, di beni e servizi per lo svolgimento delle sue funzioni – non rientra nella sfera di autonomia normativa costituzionalmente riconosciuta, le relative controversie sono sottratte alla giurisdizione domestica.

Da ciò discende inoltre che le norme del Regolamento di Amministrazione e contabilità della Camera dei Deputati (articoli 39 e ss.), dettate in materia di contratti, non essendo espressione della ridetta autonomia normativa costituzionalmente fondata, non giustificano l’attrazione della controversia nell’ambito della cognizione dell’organo di autodichia” (punto 7.5).

In ogni caso, la questione relativa alla giurisdizione in materia di appalti avrebbe potuto sembrare ormai definita dalla sentenza delle SS. UU. CC. della Corte di cassazione n. 15236 del 12 maggio 2022, con cui è stato respinto il ricorso della Camera dei deputati per difetto di giurisdizione nei riguardi della decisione del Consiglio di Stato da ultimo ricordata. In particolare, la Corte suprema – oltre a richiamare le note precisazioni delle Corte costituzionale – ha valorizzato le seguenti argomentazioni: il concorrente a una gara “non è inserito negli apparati serventi dell’organo costituzionale, ma aspira a diventarlo: è dunque un terzo…”; nella fattispecie farebbe difetto “il rapporto biunivoco normazione-giustiziabilità interna, perché la regolazione normativa è, soprattutto, quella recata dalla disciplina sovranazionale e da atti legislativi ordinari”; per cui “là dove le Camere non sono abilitate a ricorrere alla propria potestà normativa per disciplinare i rapporti con i soggetti terzi, allo stesso modo la fonte regolamentare non è capace di attrarre le relative controversie alla cognizione della giustizia domestica”; infine “fa inoltre difetto il nesso di funzione, perché l’applicazione del diritto comune degli appalti (e, con esso, la sottoposizione del contenzioso alla giurisdizione amministrativa) non appare perfettibile di intaccare il pieno e libero svolgimento da parte della Camera della sua alta funzione né di interferire negativamente sull’amministrazione dei servizi interni”.

Ma forse come poteva ritenersi scontato vi è stato un ulteriore seguito (di nuovo) presso la Corte costituzionale in sede di (ennesimo) conflitto di attribuzione, questa volta à rebours sollevato dalla Camera nei riguardi della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato con riferimento alle pronunce de quibus.

La Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto e ha nella sostanza sollecitato l’integrazione del contraddittorio mediante l’eventuale intervento ad adiuvandum del Senato della Repubblica, “stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare” (adesione poi decisa dall’Assemblea nella seduta del 7 novembre 2023). La decisione del Senato è particolarmente significativa, perché per la prima volta segna in modo netto una distinzione fra Amministrazione del Senato e organi interni di giurisdizione, avendo l’organo di prime cure affermato il proprio difetto di giurisdizione, proprio in linea con le sentenze impugnate del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione (v. infra).

Va rilevato che un conflitto del genere avrebbe anche potuto porre dubbi di ammissibilità, potendosi prospettare la tesi che si tratti di una questione di giurisdizione e non di un conflitto fra poteri.

Un fumus in questa direzione potrebbe rinvenirsi in una datata pronuncia della Corte costituzionale (v. ordinanza n. 117 del 2006), che ha escluso — in presenza del diniego, sia del giudice amministrativo che della Giunta della Camera, di pronunciarsi sulla questione della competenza a decidere il contenzioso sulla ammissione delle liste elettorali — che possa così configurarsi un conflitto di attribuzioni, trattandosi piuttosto di un conflitto negativo di giurisdizione, che alla Corte non compete risolvere (e lo stesso ragionamento potrebbe effettuarsi nel caso speculare di un conflitto positivo).

Tuttavia, anche a fronte di una possibile ipotesi di “derubricazione” del genere si sarebbe potuto pur sempre replicare che una questione di competenza relativa a organi giurisdizionali appartenenti a differenti poteri dello Stato può comunque dar vita a un conflitto di attribuzione. In ogni caso, come ricordato, la Corte costituzionale ha pacificamente affermato l’ammissibilità del conflitto anche sotto il profilo della legittimazione oggettiva (sentenza n. 179 del 2023), in quanto “il ricorso, pur se promosso in riferimento a due decisioni giudiziarie, non lamenta un mero error in iudicando, bensì la lesione della sfera di competenze riconosciuta alla Camera dall’art. 64, primo comma, nonché, più in generale, dagli artt. 55 e seguenti della Cosittuzione”.

Ma non basta. Vanno altresì ricordate quelle sentenze che non si sono pronunciate sulla questione (non dedotta) della giurisdizione, ma che hanno comunque deciso direttamente ricorsi in materia di appalti del Senato, (Tar Lazio, I sez., sentenze del 16 ottobre 2018, nn. 10020, 10021, 10022 e 10023).

La linea di confine non è stata quindi ancora definitivamente tracciata; e la questione potrebbe considerarsi ancora aperta per una serie di fattori. I bandi delle Camere continuano ad indicare come foro competente quello dell’autodichia; gli organi di giurisdizione della Camera hanno deciso ricorsi su gare e appalti anche dopo la pronuncia della Consulta del 2017, mentre si segnala una decisione dell’organo di primo grado del Senato che ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in materia (v. decisione della Commissione contenziosa n. 673 del 6 settembre 2021) proprio sulla base della ricordata giurisprudenza costituzionale del 2017.

Si è poi avuta notizia di possibili interventi de iure condendo nei regolamenti interni delle Camere, volti ad attrarre nell’autodichia (almeno) gli appalti reputati essenziali per lo svolgimento delle loro funzioni, ma senza seguito concreto. Si farà notare che – nel corso dell’udienza della Consulta del 19 marzo 2024, relativa al conflitto di attribuzione sulla giurisdizione in tema di appalti – il giudice Antonini è intervenuto per porre una domanda a un avvocato, sembrando ipotizzare proprio questa soluzione.

Con riferimento alle controversie coinvolgenti i Gruppi parlamentari, la stessa Corte di Cassazione (SS.UU.CC., ordinanza 19 febbraio 2004, n. 3335) – distinguendo tra attività` “squisitamente parlamentari di un Gruppo” e non – ha dichiarato che “non possono ritenersi incluse nell’ambito dell’autodichia tutte quelle attività che, fuoriuscendo dal campo applicativo del diritto parlamentare, non siano immediatamente collegabili con specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari”, per cui appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie legate all’attività dei Gruppi parlamentari iure privatorum (nel caso di specie, contratti di consulenza con professionisti).

Tuttavia di recente è rimasta esplicitamente impregiudicata – dopo che la Corte di Cassazione (SS.UU.CC., ordinanza 6 marzo 2020, n. 6458) ha dichiarato sul punto un nitido difetto di giurisdizione della magistratura ordinaria – la questione “se  tra gli atti e i provvedimenti amministrativi adottati dal Senato, non concernenti i dipendenti, cui si riferisce il citato regolamento sulla tutela giurisdizionale da parte degli organi di autodichia del Senato, rientri anche il provvedimento di espulsione di un senatore dal gruppo parlamentare di appartenenza ad opera del presidente del gruppo stesso”. In particolare, la Cassazione arriva alla conclusione non poco problematica che “in mancanza di prassi applicative significative sulla portata della norma regolamentare del Senato nel senso divisato dall’Ufficio requirente, in questa sede è sufficiente rilevare che rientra nel potere del Senato della Repubblica decidere autonomamente e secondo le modalità da esso stabilite le controversie che possono investire le attività interne allo stesso Senato nei rapporti tra Gruppo parlamentare e senatore espulso dal raggruppamento stesso”.

Dal canto loro gli organi di autodichia – investiti della medesima vicenda di cui sopra – sono pervenuti a pronunce difformi: il Consiglio di garanzia del Senato (v. decisione n.252 del 2021) ha affermato la propria competenza a decidere, mentre il Collegio di appello della Camera l’ha esclusa (v. sentenza n. 1 del 2022).

Invece, ormai pacificamente non rientrano nell’ambito dell’autodichia le controversie tra i Gruppi parlamentari e i loro dipendenti, essendo devolute al giudice ordinario: v. ex pluribus Cass., SS.UU.CC, ordinanze n. 27863 del 2008 relativamente ad un Gruppo della Camera e n. 27396 del 2014 riguardo ad un Gruppo del Senato. In quest’ultimo caso – essendo in discussione l’applicazione di una delibera del Consiglio di Presidenza del Senato – la Cassazione ha specificato che competente è comunque il giudice ordinario che “conoscerà soltanto degli effetti di tale atto, avuto riguardo allo statuto di garanzia che va riconosciuto al Senato nel dettare atti di macro-organizzazione per la conduzione amministrativa dell’istituzione parlamentare”, per cui non può sussistere, come nel rapporto privato con la p.a., “l’alternativa tra rilevanza macroorganizzatoria dell’atto contestato (impugnabile dinanzi al giudice amministrativo) e sua rilevanza di mero presupposto del diritto soggettivo sottoposto (quindi conoscibile dal giudice ordinario per la disapplicazione)”. A nostro avviso forse tale distinzione andava mantenuta, quanto meno per affermare nella prima alternativa la competenza della giurisdizione domestica.

Parimenti, circa gli assistenti dei singoli parlamentari, nel famoso “caso Indirli” la Corte di Cassazione (SS.UU.CC., 26 maggio 1998, n. 5234) ha dichiarato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l’impugnativa del licenziamento intimato da un deputato al suo assistente personale, esulando pertanto dall’autodichia della Camera, in quanto il rapporto di lavoro è instaurato direttamente dal parlamentare in nome e per conto proprio, secondo gli schemi contrattuali di cui all’art. 2222 c.c. (di diverso avviso era stato il Pretore di Roma, 6 novembre 1993).

Ancora: con ordinanza delle SS.UU.CC. n. 5303 del 6 marzo 2018 è stata affidata al giudice amministrativo la competenza sulle controversie fra le Commissioni parlamentari di inchiesta e i loro consulenti, considerati “terzi” e configurati come “funzionari onorari”, il cui trattamento economico ha natura indennitaria e non retributiva.

Resta tuttora incerta la questione della giurisdizione nei riguardi delle controversie concernenti i c.d. “gabinettisti”, val a dire i collaboratori fiduciari dei parlamentari titolari di incarichi apicali: gli organi di autodichia del Senato hanno affermato che la competenza spetta al giudice ordinario, trattando di rapporti con le persone fisiche dei predetti titolari e non con l’Amministrazione mentre la Corte di Cassazione (SS.UU.CC, ordinanza n. 4312 del 2024) –dichiarando inammissibile il regolamento di giurisdizione – non ha però definito la querelle sul piano della spettanze della competenza a decidere.

Infine, in materia di contributi elettorali dello Stato ai partiti per il tramite dei Gruppi parlamentari, la stessa Corte di Cassazione (SS.UU.CC., 15 marzo 1999, n. 136) aveva affermato che i rimedi interni previsti dalla legge n. 195 del 1974 non implicavano l’introduzione di una nuova forma di autodichia, non essendo tali rimedi preclusivi della facoltà, per il partito, di adire successivamente l’autorità giudiziaria a tutela dei propri diritti. Su questa linea, sempre in materia di contributi elettorali, v. anche la decisione (di cassazione con rinvio) della Corte di Cassazione (Sez. I civ., 27 luglio 2000, n. 9727), nonché l’ordinanza delle SS.UU.CC. 23 aprile 2012, n. 6331 (con cui è stata respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione).

Per quanto concerne invece le eventuali richieste di un equo indennizzo per l’eccessiva durata di procedimenti svoltisi presso gli organi giurisdizionali delle Camere, la Corte di Cassazione (SS.UU.CC., sentenza n. 14085 del 2004, relatore Fracanzani) ha affermato che il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 3 della l. n. 89 del 2001 non possa essere negato, ma che spetti alla competenza giurisdizionale della Camera competente (in quel caso il Senato), affermando il difetto di giurisdizione della magistratura ordinaria.

Diversa è evidentemente invece la situazione delle Amministrazioni delle Camere quando agiscono iure privatorum, cioè senza l’esercizio dei poteri autoritativi tipici delle pubbliche amministrazioni, nel qual caso non sembra contestata la competenza del giudice ordinario: per una fattispecie di iuris dictio su una controversia relativa all’interpretazione di una clausola contrattuale da parte della Camera, v. l’ordinanza del 9 maggio 2012 del Tribunale di Roma, II Sez. civ. (ricorso ex art. 700 c.p.c. n. 74831/2011). V. anche le sentenze del Tribunale civile di Roma, Sez. I, n. 21961 del 2011 (Senato) e n. 1213 del 2012 (Camera) in materia di trattamento dei dati personali di soggetti esterni.

Parimenti sembrerebbe appartenere alla competenza del giudice esterno – oltreché in ambito penale (v. esplicitamente la sentenza della Consulta n. 379 del 1996) – anche la materia tributaria quando le Amministrazioni delle Camere agiscono come mero sostituto d’imposta (per un precedente v. sentenza Cass., SS.UU.CC., 20 novembre 2020, n. 26494). V. anche di recente Corte Cass, Sez. V civ., sentenza n. 4478 del 2024, sulla giurisdizione del giudice tributario, con riferimento a un atto dell’esecutivo (il quale non può essere parte nei giudizi di autodichia delle Camere) che abbia inciso sull’indennità parlamentare.

  •  L’actio finium regundorum dopo le sentenze della Corte costituzionale del 2014 e del 2017

In esito ai complessi contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 262 del 2017 si è subito posta la questione di un’actio finium regundorum circa l’estensione della giurisdizione domestica delle Camere nei riguardi di soggetti “altri” rispetto ai dipendenti in servizio ed agli stessi parlamentari in carica.

Spetterà soprattutto alla Corte di Cassazione il compito di perimetrare con precisione l’ambito di estensione dell’autodichia degli organi giurisdizionali delle Camere, come del resto già avvenuto in passato. Ma non sono da escludersi anche interventi della Corte costituzionale adita in sede di conflitti di attribuzione, ancorché di problematica ammissibilità trattandosi di questioni di giurisdizioni (che però coinvolgerebbero poteri diversi).

Nulla quaestio si pone circa le controversie riguardanti i candidati ai concorsi alle carriere parlamentari. A parte l’espresso riferimento testuale nei regolamenti degli organi di autodichia, nella citata sentenza della Corte costituzionale (punto 7.2 dei considerata in diritto) ai fini dell’autonomia normativa e della conseguente autodichia si afferma che “il buon esercizio delle alte funzioni costituzionali attribuite agli organi in questione dipende in misura decisiva dalle modalità con le quali è selezionato (corsivo nostro, sc.), normativamente disciplinato, organizzato e gestito il personale”.

Parimenti non sembrano sussistere dubbi circa la competenza giurisdizionale per le controversie degli ex-dipendenti delle Camere, nonostante i dubbi espressi da autorevole dottrina (Gianfrancesco).

Infatti, nei loro riguardi potrebbero valere – ed a maggior ragione – le conclusioni cui più volte è pervenuta la Corte di Cassazione circa la sussistenza dell’autodichia relativamente agli ex parlamentari.

Volendo sintetizzare, si richiamano in particolare i contenuti delle ordinanze delle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (nn. 18265 e 18266 del 2019, nonché n. 1720 del 2020) che hanno affermato la competenza degli organi di giurisdizione domestica delle Camere in materia di controversie riguardanti gli assegni vitalizi degli ex parlamentari, in quanto la affermata “derivazione dell’assegno vitalizio dall’indennità parlamentare esclude che, rispetto alle controversie relative al diritto all’assegno vitalizio dell’ex parlamentare e alla relativa entità, l’ex parlamentare possa essere considerato soggetto terzo solo perché la sua carica è cessata”. Pertanto, “le controversie relative alle condizioni di attribuzione e alla misura dell’indennità parlamentare e/o degli assegni vitalizi per gli ex parlamentari non possono che essere decise dagli organi dell’autodichia, la cui previsione risponde alla medesima finalità di garantire la particolare autonomia del Parlamento”.

Val la pena ricordare che già la Corte di appello di Roma, Sez. I civ., con sentenza 23 giugno 1986, n. 1413 aveva dichiarato il difetto di giurisdizione dell’a.g.o., anche con riferimento a posizioni definibili quali “diritti soggettivi pubblici” dei parlamentari e degli ex parlamentari, stante l’insindacabilità` di atti che sono tipiche espressioni dell’autonomo potere del Parlamento.

Per quanto concerne gli appalti, materia espressamente esclusa per l’autodichia dalla sentenza n 262 del 2017, si rinvia a quanto esposto al paragrafo precedente.

  •  Il ricorso per Cassazione per violazione di legge

Anche prima della sentenza della Consulta n. 261 del 2017 – che lo ha espressamente escluso, respingendo anche la richiesta formulata in via subordinata – la Corte di Cassazione aveva costantemente negato l’ammissibilità` del ricorso diretto in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. sulle decisioni degli organi del contenzioso interno delle Camere, In un primo tempo non lo ammetteva in quanto sarebbe mancato a tali organi il requisito della terzietà e quindi i relativi provvedimenti non avrebbero natura giurisdizionale (bensì amministrativa), per cui conseguentemente non troverebbe applicazione l’art. 111 Cost. ((SS.UU.CC, sentenze 11 marzo 1999, n. 317 e 19 novembre 2002, n. 16267).

Successivamente lo ha escluso poiché, pur dovendosi riconoscere natura giurisdizionale alle pronunce degli organi di autodichia, in ogni caso non possono essere “scalfite” le garanzie di indipendenza del Parlamento, per cui vi sono alcune aree di esenzione e di delimitazione del sindacato di legittimità proprio della stessa Corte di Cassazione (SS.UU.CC.,sentenza 10 giugno 2004, n. 11019).

Infatti, coerentemente l’inammissibilità del ricorso per Cassazione era stata affermata per gli stessi motivi anche con riferimento a provvedimenti di natura giurisdizionale resi da organismi politici costituzionali in ambito penale (v. Cass., SS.UU.PP., sentenze 23 ottobre 1976 e 12 marzo 1983).

Da ultimo, si potrebbe dire “a rime obbligate” dopo la giurisprudenza costituzionale del 2017, la Corte di Cassazione ha poi conseguentemente confermato la propria pregressa giurisprudenza circa l’inammissibilità del ricorso per legittimità ai sensi dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione (v. relativamente al Senato le ordinanze SS.UU.CC. nn. 9337 e 10775 del 2018 e per la Camera le ordinanze nn. 16153 e 16155, nonché n. 28178 del 2020).

In conclusione, però, va anche doverosamente ricordata la posizione di recente espressa da acuta dottrina (Castelli), che ha auspicato autonome scelte regolamentari delle Camere, proprio al fine di un’apertura al sindacato di legittimità della Corte di Cassazione, magari con la predefinizione dell’oggetto e dei limiti di tale intervento, avendo per altro verso la stessa Corte costituzionale definito più volte l’impugnabilità per ricorso in Cassazione una delle “garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute”.  Del resto, gli organi di autodichia delle Camere già attualmente sono assoggettati al giudizio reso dalla Corte di Cassazione in sede di regolamento di giurisdizione (espressamente rivendicato in particolare nelle citate ordinanze nn. 18265 e 18266), e per altro verso l’esperienza relativa al Consiglio di Stato ed alla Corte dei Conti insegna l’ampiezza che possono assumere in Cassazione i cosiddetti “motivi inerenti la giurisdizione”.

Di recente, seppur con riferimento alle pronunce di secondo grado degli organi di autodichia della Presidenza della Repubblica, la Corte di Cassazione (sez. lav., ordinanza n. 15958 del 2021) ha ribadito l’inammissibilità del ricorso al giudice di legittimità.

  • La giurisdizione della Corte dei conti

Si è già accennato al fatto che le controversie in materia di pensioni erogate dalle Camere sono pacificamente devolute ai loro organi di autodichia, con esclusione quindi della competenza della Corte dei conti.

In questo paragrafo preme rilevare che anche la giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale va interdetta nei riguardi sia dei parlamentari che dei funzionari delle Camere, come pure si potrebbe evincere a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale 4 dicembre 2009, n. 337, che ne ha invece affermato la sussistenza con riferimento all’A.R.S., cui “compete una sfera costituzionalmente protetta non già di sovranità, ma di autonomia”.

In ogni caso a questa conclusione si poteva pervenire già da un’attenta lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 1981 sulla cosiddetta “autonomia contabile” degli organi costituzionali, che fra l’altro aveva portato all’esclusione del giudizio di conto.

Ora però è intervenuta la specifica sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 2018, n. 169, seppur con riferimento alla Presidenza della Repubblica, con la quale è stato accolto un conflitto di attribuzione, dichiarandosi che non spettava alla Corte dei conti esercitare la giurisdizione sulla responsabilità amministrativo-contabile nei confronti di dipendenti della Presidenza stessa.

Secondo la Consulta, l’autonomia degli organi costituzionali, come già affermato dalla sentenza n. 129 del 1981, si esprime anzitutto sul piano normativo, competendo loro “la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l’assetto ed il funzionamento degli apparati serventi; ma non si esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente -. il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza”.

E poi: “Non è compatibile con tali principi l’esercizio della giurisdizione contabile di responsabilità, trattandosi di un giudizio attivabile d’ufficio da parte della Procura della Corte dei conti e indipendentemente dall’iniziativa della Presidenza della Repubblica in un ambito rientrante nell’autonomia costituzionale di questa”.

Peraltro, concludeva la Corte, nella fattispecie la Presidenza della Repubblica ha proceduto nella sua autonomia “a far valere la responsabilità di alcuni dei suoi dipendenti presso la giurisdizione civile ordinaria, al fine di ottenere il totale risarcimento del danno subito dalla dotazione presidenziale”.

A nostro avviso la sentenza de qua rende ancora più significativo il monito contenuto nella sentenza della Consulta n. 129 del 1981, la quale ha sì affermato che spetta alle Camere (e alla Presidenza della Repubblica) dettare autonomamente le disposizioni regolamentari ritenute più opportune per garantire una corretta gestione delle somme affidate ai rispettivi tesorieri, ma ha anche “ammonito” del fatto che rientra nell’esclusiva disponibilità di detti organi attivare i corrispondenti rimedi, amministrativi od anche giurisdizionali.

In quest’ottica, il combinato disposto delle pronunce del 1981 e del 2018 potrebbe rendere opportuno un deferimento anche agli attuali organi del contenzioso della cognizione degli eventuali giudizi, assimilabili a verifiche sulla responsabilità per danno erariale, riguardanti parlamentari o funzionari per vicende dell’amministrazione, sempreché ovviamente ne sussistano i presupposti.

  • Il controllo sulla legittimità anche costituzionale delle norme da applicare

Nonostante una certa enfasi in letteratura per l’innovatività della decisione, a nostro avviso soprattutto dopo la citata giurisprudenza (abbastanza consolidata) della stessa Corte di Cassazione circa la natura giurisdizionale degli organi di autodichia non poteva che ritenersi abbastanza scontata la pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 217 del 12 ottobre 2017) circa la legittimazione della Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati “a sollevare l’incidente di costituzionalità, come giudice a quo ai sensi dell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, in quanto organo di autodichia, chiamato a svolgere, in posizione super partes, funzioni giurisdizionali per la decisione di controversie (nella specie, quelle appunto tra Camera dei deputati e pensionati suoi ex dipendenti) per l’obiettiva applicazione della legge”.

La motivazione, pur nella sua laconicità, appare sufficientemente esaustiva al fine di giustificare la legittimazione soggettiva degli organi di autodichia, anche se – trattandosi della prima volta – forse la questione avrebbe meritato un maggior approfondimento espositivo. 

In ogni caso questa è e sarà una fattispecie rara e “di nicchia”, essendo del tutto infrequenti le occasioni in cui gli organi di autodichia debbono applicare leggi o atti con forza di legge, anziché norme regolamentari interne (come in genere avviene in modo pressoché esclusivo).

Se infatti eventuali vizi di incostituzionalità della normativa interna da applicare non possono essere sottoponibili alla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 Cost. e se in un ordinamento a Costituzione rigida non dovrebbero sussistere “zone franche di incostituzionalità”, opportunamente da tempo la giurisprudenza degli organi di autodichia delle Camere ha stabilito il principio che essi possano disapplicare disposizioni eventualmente ritenute costituzionalmente illegittime, con effetti limitati al solo caso dedotto in giudizio, oppure – laddove siano violati principi fondamentali – annullare le norme de quibus con effetti erga omnes.

Exempli gratia si può ricordare al riguardo la complessa decisione n. 116 del 2007 del Consiglio di garanzia del Senato, in cui da un lato si è invitato a privilegiare il criterio dell’interpretazione adeguatrice della norma regolamentare rispetto al dettato costituzionale, dall’altro lato in caso negativo si è affermata la possibilità di disapplicare la norma primaria confliggente con i princıpi costituzionali ed anche quella di annullare erga omnes l’atto primario lesivo di interessi, se viziato da violazione dei princıpi fondamentali.  Invece, sempre il Consiglio di garanzia del Senato (v. decisione n. 110 del 2006) ha escluso che i regolamenti minori da applicare possano essere sindacati dagli organi di autodichia circa la conformità con il Regolamento generale, la cui tutela sarebbe riservata all’Assemblea.

Parimenti, nel sistema dell’autodichia, pur senza scomodare la teoria dell’insindacabilità degli atti politici, non potranno essere ammesse questioni riguardanti l’applicazione del diritto parlamentare nell’ambito dei lavori degli organi della Camera. A questo proposito si può ad esempio ricordare la valutazione di inammissibilità (v. la sentenza del Consiglio di giurisdizione della Camera n. 3 del 2005) di un ricorso volto a contestare la decisione di una Commissione permanente di non attivare il circuito audiovideo interno in occasione di una determinata seduta, oppure di un ricorso volto a contestare la decisione del Presidente della Camera circa le modalità di accettazione delle dimissioni di un parlamentare, rese in un contesto di ritenuta incompatibilità (v. Sez. giur. dell’Ufficio di Presidenza della Camera, sentenza n. 2 del 2008).

Va infine segnalato il pionieristico tentativo del Consiglio di garanzia del Senato della Repubblica di sottoporre in via incidentale alla Corte costituzionale disposizioni contenute in un regolamento “di diritto parlamentare amministrativo”, in quanto la giurisprudenza costituzionale – che sottrae a tale scrutinio i regolamenti cosiddetti maggiori – non potrebbe essere automaticamente estesa a quelli minori. Questi infatti «ben potrebbero meritare la qualifica di atti aventi forza di legge ed essere privi di ogni valore organizzativo, così da essere estranei al principio di separazione dei poteri che giustifica ogni insindacabilità»., soprattutto quando riguardanti diritti soggettivi oggetto di riserva di legge (citando l’art. 36 Cost.).

Come noto, tale argomentazione non è stata seguita dalla Corte costituzionale (v. sentenza n. 237 del 2022), la quale ha ritenuto invece che – se i regolamenti generali non sono annoverabili tra gli atti aventi forza di legge ai sensi dell’art. 134, primo alinea, Cost. – “tale precisazione va, a maggior ragione, ribadita con riguardo ai regolamenti minori, che… trovano in quelli maggiori la propria fonte di legittimazione”.

Pertanto, nel caso dei regolamenti c.d. “minori” l’eventuale incostituzionalità di loro disposizioni è allo stato rimessa alla valutazione degli organi di autodichia delle Camere, analogamente a quanto avviene per il regolamenti del governo davanti al giudice amministrativo. Uno spunto in tal senso è anche rinvenibile nell’intervento del giudice Patroni Griffi nell’udienza della Consulta del 4 ottobre 2022, relativa al conflitto da ultimo ricordato.

  1. Conclusioni

Per fortuna costituzionale lo sforzo di auto-riforma nell’organizzazione interna delle Camere e l’impegno volto a recepire prassi virtuose della giustizia civile ed amministrativa hanno condotto alla piena maturità degli organi giurisdizionali delle Camere.

Possono per esempio considerarsi pienamente soddisfatti gli “indici” segnalati giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che – onde valutare la funzione giurisdizionale dell’organo remittente la questione interpretativa – tiene conto di un insieme di elementi quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, l’applicazione di norme giuridiche da parte dell’organo in questione, la sua indipendenza (v. ex pluribus Corte Giustizia UE, 27 gennaio 2005, procedimento C-125/04).

Sempre per fortuna costituzionale sono ormai pienamente consolidate nella giurisprudenza degli organi di autodichia adeguate ed aggiornate riflessioni anche su rilevanti aspetti squisitamente processuali, come evidenziato da accorta dottrina operativa (Malinconico): ad esempio, legittimazione ad agire, costituzione in giudizio, contraddittorio, patrocinio, decorso del tempo, disciplina d’udienza, revocazione, istanze cautelari, giudizio d’ottemperanza, spese di giudizio, pubblicità delle udienze e degli atti, comunicazioni e notifiche.

Resta da chiedersi se non sia auspicabile un passo in più in direzione di una certa “flessibilizzazione” dell’autodichia al fine di renderla ancora più costituzionalmente coerente, nel senso di favorire una scelta regolamentare autonoma delle stesse Camere riguardante un’apertura, seppur con precisi limiti, al giudizio per violazione di legge della Corte di Cassazione, che comunque resterebbe esclusa dalla ricostruzione delle controversie in punto di fatto, evidentemente appannaggio esclusivo degli organi di giurisdizione domestica.

Per fortuna costituzionale, infine, è ormai sepolto sotto “la sabbia fredda del tempo andato” quel clima ante riforme degli anni 1987-1988 descritto all’epoca da autorevole dottrina (Sandulli), per cui si riteneva che le posizioni soggettive dei dipendenti delle Camere (e degli altri interessati) potessero essere solo “politicamente protette” e che nell’ordinamento particolare proprio di un organo costituzionale, operante in un regime di autonomia, non si potesse nemmeno parlare di diritti e di interessi legittimi.  

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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L. Castelli, L’autodichia degli organi costituzionali. Assetti, revisioni, evoluzioni, Torino, 2019

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C. Gorga. L’autodichia delle Camere nella giurisprudenza costituzionale, Napoli 2018

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R. Dickamm, La Corte costituzionale consolida l’autodichia degli organi costituzionali, su Federalismi.it, 2017, n. 24, disponibile sul sito corrispondenteG. Malinconico, Attività e prassi degli organi giurisdizionali d’autodichia della Camera dei Deputati, su Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 2011, n. 5, pp. 245 ss.

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A.M. Sandulli, Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica nei confronti del loro personale, su Giurisprudenza italiana, 1977, pp. 1832 ss.

P. Lucifredi, Note sulla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive lese del personale dipendente degli organi costituzionali dello Stato, su Rassegna parlamentare, 1971, pp. 71 ss

G. Bertolini, Appunti sull’origine e sul significato originario della dottrina degli interna corporis, in  AA.VV., Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. V, Firenze, 1969, pp.

S. Romano, Gli atti di un ramo del Parlamento e la loro pretesa impugnabilità dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, su Il Corriere giuridico, 1899, vol. XXX, pp. 77 ss.

C. Lessona, Nota a Consiglio di Stato, IV Sez., 9 novembre 1898, n. 415, su Foro italiano, 1898, III, pp. 105 ss.

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