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Burocrazia difensiva, danno erariale costi del non fare

dell’Avv. Roberto Viscomi

(i)Inquadramento; (ii)Concetto di Burocrazia: nascita ed evoluzione e comparazione;(iii)Burocrazia normativa: legge e PA, osmosi o conflitto? Il rapporto tra politica e amministrazione; Brevi cenni sulla cosiddetta burocrazia incolpevole; (iv)Burocrazia Difensiva: danno erariale oppure un nuovo modo d’intendere la paura della firma? Breve cenno al reato di abuso d’ufficio anche alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale n.8/22; (v)La Burocrazia digitale: un ulteriore aspetto di burocrazia difensiva? (vi)Conclusioni

(i) Lo Stato di diritto affinché sia tale ha sempre più bisogno del ruolo svolto dalle istituzioni, per creare lo sviluppo necessario non solo alle attività economiche ma anche alle libertà individuali e sociali.

L’apparato amministrativo spesso e volentieri, però, appare pachidermico – in rapporto anche alla iper-regolamentazione che sovente ne ingessa il suo divenire funzionale e quello dei suoi attori principali che invece di essere tali diventano passivi spettatori, quasi come se si fosse davanti a una rappresentazione di Emile Bayard – nell’espletamento delle sue attività più basilari, passibile, pertanto, non solo di alterazione in negativo del processo economico e sociale in cui opera ma, altresì, passibile di plurime fattispecie di danno cosiddetto erariale, ostacolo pantagruelico al benessere e allo sviluppo di uno Stato e al suo vivere civile.

Un’analisi di quelli che si ritengono i punti più salienti del fenomeno burocrazia nella sua accezione ulteriore, denominata difensiva, dilagante negli ultimi tempi e in maggior misura se rapportata alle risorse europee da allocare, permette di mettere in luce qualcuna delle priorità basilari, affinché il futuro del nostro Stato possa competere e coesistere armonicamente con quello degli altri Stati o comunque di rappresentare in ottica europeista non già un fenomeno in negativo del proprio apparato nevralgico ma di alimentare prerogative fondamentali di coesistenza civile e sviluppo generale, soprattutto se rapportato alla sua funzione principale ovvero di vicinanza alle esigenze dei cittadini.

L’humus della burocrazia difensiva è il non fare per evitare rischi: un doppio canale digitale e cartaceo per allungare i tempi e diluire la decisione; chiedere una moltitudine di pareri senza prendere una decisione; chiedere ai cittadini o alle imprese sempre più dati anche se sono già immagazzinati e a disposizione; allungare, insomma, i tempi per evitare il momento decisivo; non rischiare , non scegliere, affidarsi a molteplici algoritmi, neutrali, per far sì di non valutare e non essere valutati.

Le cause e gli effetti della burocrazia difensiva, quindi, sono molteplici: non capire il senso strategico del proprio lavoro; stare a galla nel mare magnum della moltitudine di norme; frammentazione della responsabilità a discapito del processo decisionale fondamentale per la libera iniziativa economica e privata, in altre parole disintegrazione psico-fisica e stagnazione economica e il legittimo affidamento, istituto complesso elaborato nel corso degli anni dalla giustizia amministrativa, riposto nella pubblica amministrazione è sempre più denigrato.

In un interessante studio di analisi economica del diritto, condotto nella cultura anglosassone e suffragato in Italia dall’IRPA, è stato proposto un modello teorico per l’analisi delle cause del c.d. “chilling effect” della responsabilità, o, detto con espressione considerata dagli autori equivalente, della “defensive bureaucracy”, la quale consiste in “both unnecessarily delayed and overly cautious decisions”.

Secondo tale modello, i principali fattori da cui dipende la burocrazia difensiva sono quattro:

  1. In primo luogo, rileva il grado di incertezza (ex ante) del funzionario circa il modo in cui la sua condotta sarà valutata (ex post) dal giudice, ai fini dell’accertamento della responsabilità. L’incertezza normativa determina in generale una tendenza alla “over-precaution”, che nel caso del funzionario pubblico è però ulteriormente rafforzata dalla circostanza che egli non sostiene i costi del suo eccesso di prudenza: “When the rules which a public authority needs to follow are quite clear, the risk of chilling behaviour is small. When the law is vague or ambiguous, chilling behaviour is more likely”.
  2. Il secondo elemento del modello teorico è l’entità del danno che il funzionario può essere chiamato a risarcire, che si collega anche alla probabilità che ciò accada (“plaintiffs will often not pursue small damage claims”). Non rileva tuttavia il solo risarcimento economico, ma anche il danno reputazionale, collegato all’eco mediatica di una eventuale condanna o, in generale, all’attivazione di tutti i meccanismi di accountability previsti dall’ordinamento.
  3. In terzo luogo, la responsabilità produce tanta più burocrazia difensiva, quanto meno quest’ultima è, a sua volta, fonte di responsabilità per il funzionario. La presenza di sanzioni per condotte omissive o inerti, ad esempio, diminuisce il rischio di burocrazia difensiva, essendo il funzionario chiamato a bilanciare i potenziali costi dell’azione con quelli della (eccessiva) precauzione.
  4. Infine, la presenza di polizze assicurative per il caso di responsabilità ovviamente mitiga la burocrazia difensiva, anche se in genere non annulla il fenomeno, perché ad esempio vi sono danni non finanziari (come quelli reputazionali) e spesso le polizze non sono complete.

Questa ulteriore faccia della burocrazia – che a qualcuno, i più elegiaci, sembra sempre di più essere simile a un mostro delle tragedie greche il cui abbattimento costituì una delle fatiche di Ercole, mentre a qualcun altro, meno elegiaco ma forse più romantico e pratico, un robot uscito fuori dai fumetti giapponesi anni ’80 che di volta in volta mostrava un viso nuovo [Invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia] intercambiabile alla bisogna- benché sia in Italia di recente conio ha una sua esegesi che affonda nell’antichità.

(ii)Il processo evolutivo (per certuni involutivo) apportato dall’economia globalizzata, la sempre crescente importanza dei trattati internazionali e la minore capacità legislativa dei parlamenti ha imposto l’esigenza di un recupero di efficacia del sistema pubblico del nostro paese ma va da sé dei vari paesi; ciò ha ridefinito i suoi confini e introdotto una nuova considerazione del rapporto pubblico-privato in termini di cooperazione, basti pensare alla rivoluzione copernicana introdotta alla metà degli anni ottanta dalla Commissione Nigro sfociata poi nell’epocale revisione del procedimento amministrativo con l’introduzione della legge 241/90 e della successiva riforma del Titolo V della Costituzione. Tutto ciò ha predisposto le basi per un significativo revirement dei modelli organizzativi pubblici nonché ha posto le basi verso una ricerca di forme di gestione più flessibili ovvero market based  per usare una formula cara agli anglosassoni: una definizione dell’ampiezza della pubblica amministrazione italiana è fornita dall’art. 2 del D.lgs 30 marzo n. 165/2001 c.d. Testo Unico per il Pubblico Impiego, il quale evidenzia che per amministrazioni pubbliche s’intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e le amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, le Istituzioni Universitarie, gli Istituti autonomi delle case popolari, le Camere di commercio e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici, nazionali, regionali o locali, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale, l’ARAN e le agenzie di cui al D.lgs 300/1999.

Pertanto, questa definizione, quasi panteistica, tralascia soltanto gli Enti Pubblici Economici, in quanto regolati da norme di diritto privato.

Martin ALBROW[1] attribuisce al termine burocrazia sette significati diversi: 

  • burocrazia come organizzazione razionale; 
  • burocrazia come inefficienza organizzativa; 
  • burocrazia come dominio dei funzionari; 
  • burocrazia come pubblica amministrazione; 
  • burocrazia come amministrazione da parte dei funzionari; 
  • burocrazia come organizzazione; 
  • burocrazia come società moderna. 

Secondo il sociologo britannico “Affermare che la burocrazia è antica quanto la storia umana significa soltanto fare della vuota retorica. Affermare invece che essa è antica quanto la storiografia vuol dire asserire qualcosa di molto più significativo.” 

Quando Hegel[2] giunse a parlare della Cina durante il corso di lezioni che tenne all’Università di Berlino negli anni a cavallo tra il 1820 e il 1830, affermò che la storia aveva inizio con quell’Impero perché esso per primo aveva elaborato una coerente storiografia. La burocrazia nascerebbe, quindi, dalla logica dell’organizzazione sociale su larga scala. 

Aristotele nella sua Politica fornisce un’acuta descrizione delle necessità pratiche della vita comunitaria della città-Stato greca che impongono l’istituzione di magistrature per regolare i mercati, sovraintendere ai contratti, mantenere l’ordine, intraprendere opere pubbliche, amministrare le finanze. Alcuni di questi incarichi sono universali, altri dipendono dal grado di prosperità, altri ancora dal tipo di costituzione. In una democrazia l’assemblea stessa richiederà che le si prestino dei servizi: deve essere riunita, i suoi compiti devono essere regolati, le sue decisioni devono essere tradotte in pratica. Ma, indipendentemente dalla forma democratica, “nessuno Stato può mai esistere se mancano le cariche assolutamente indispensabili; nessuno Stato governato correttamente può esistere se mancano coloro che assicurano ordine e buona organizzazione”. Quella che Aristotele presentava come una verità ovvia era già stata intuita dal suo predecessore Platone, il quale, tracciando nella Repubblica le linee

essenziali di una società perfetta, distingueva tra i reggitori, custodi dello Stato, e gli ausiliari che facevano rispettare le loro decisioni. Separati dalla terza classe della popolazione (commercianti, artigiani, ecc.), gli ausiliari venivano istruiti fin dall’infanzia a eseguire i loro compiti essenziali. Si può, pertanto, dire che qualcosa sia mutato nel mondo moderno? Modernità e burocrazia, come le intendiamo oggi, sono infatti intimamente connesse. Esse sono collegate nella serie di trasformazioni che hanno fatto uscire gli imperi dai cicli di ascesa e declino e hanno dato origine al processo noto un tempo come ‘civilizzazione’, poi semplicemente come ‘progresso’, e oggi descritto con il termine di Max Weber ‘razionalizzazione’.[3] Si tratta di un processo che ha visto il perfezionamento di macchinari di ogni genere, dalla tecnologia domestica ai sistemi governativi di informazione computerizzati, dai programmi televisivi a diffusione mondiale all’apparecchio stereofonico personale. Oggi è possibile vivere in un igloo e trasmettere dati in Papuasia.

La razionalità istituzionalizzata ha in sé connaturata una forza che ha trasformato il mondo e, contemporaneamente, le relazioni tra le persone.

Questa trasformazione si è riverberata anche sul linguaggio, determinando l’emergere di termini quali Stato, diritti individuali, ideologia, sociologia, curve di indifferenza, utilità marginale – e anche burocrazia. 

L’invenzione di de Gournay fu un colpo di genio. “Burocrazia” è il frutto dell’unione del termine greco κράτος, dominio, e del termine francese bureau, che significa scrivania o ufficio, ed esprime pertanto efficacemente il paradosso moderno per cui la maestà del potere nella società emerge da un luogo prosaico nel quale si esplica un lavoro abitudinario. Lo scopo principale da lui perseguito fu rimuovere gli ostacoli al commercio e all’industria, in particolare la regolamentazione e i monopoli governativi. Per questi motivi fu considerato uno dei fondatori dell’economia politica; egli inventò inoltre la celebre espressione laissez faire, laissez passer.Il termine divenne poi di uso corrente. All’inizio del XIX secolo esso compariva già nei vari dizionari delle lingue europee.[4] 

Non è un caso che il termine burocrazia sia stato coniato in Francia, la nazione che nel XVIII secolo occupava una posizione preminente in Europa, con una ricchezza e una popolazione in costante aumento, amministrata da una monarchia centralizzata e circondata da intellettuali sempre più sicuri di sé. La burocrazia non era un problema di cattivo governo, era un nuovo tipo di governo, nel quale la fonte dell’Autorità veniva trasferita unicamente in forze impersonali incarnate nei funzionari. Ovviamente l’esperienza di questo tipo di governo non poteva che essere frustrante per il singolo cittadino. Da una parte il governo appariva come un labirinto di regole opprimenti che necessitava di riforme, dall’altra ogni tentativo di intervenire in questo sistema sarebbe apparso come una irragionevole, disonesta, illegittima ingerenza personale. La Rivoluzione francese non offrì di per sé alcun rimedio alla burocrazia. Anzi, insistendo sulla ragione come unico principio di governo appropriato, diede ulteriore slancio allo sviluppo dell’apparato amministrativo, tanto che nel XIX secolo si fece sempre più strada e fu poi universalmente accettata la tesi secondo cui la Rivoluzione aveva dato un impulso enorme alla burocrazia. 

Aldilà della Manica, invece, l’Inghilterra si distingueva per la sua resistenza alla tendenza dominante verso il governo burocratico. L’affermazione secondo cui gli Inglesi praticavano l’autogoverno a livello locale e l’idea che il Parlamento britannico rappresentasse una vera difesa contro la crescita della burocrazia divennero dei luoghi comuni nei commenti dell’epoca. Queste considerazioni indussero il maggior filosofo politico britannico della seconda metà del XIX secolo, John Stuart Mill, ad affermare che esistevano essenzialmente soltanto due tipi di governo di competenti – le burocrazie e le democrazie – poiché quei governi che andavano sotto il nome di monarchie o aristocrazie, se dimostravano una notevole forza intellettuale e capacità nell’eseguire i propri compiti, erano in realtà burocrazie “nelle mani di amministratori di professione, cosa che costituisce l’essenza e il significato della burocrazia” 

In Italia, un importante contributo venne da Gaetano Mosca, che nel 1895 pubblicò la sua prima importante opera, Elementi di scienza politica, che divenne presto un classico. Egli individuò l’elemento determinante per classificare i governi nel possesso del potere, sostenne che tutte le società erano divise in due classi, governanti e governati, e concluse che c’erano solo due tipi di governo, quello feudale, dove i membri della classe dirigente potevano ciascuno singolarmente esercitare qualunque funzione di governo, e quello burocratico, dove queste funzioni erano suddivise tra settori della classe dirigente. I funzionari salariati erano uno di questi settori e davano il nome a questo tipo di Stato. 

Toccò, infine, alla Germania, e più specificamente alla Prussia, aggiungere il tratto finale alla moderna concettualizzazione della burocrazia. Fu infatti la cultura tedesca a fornire per prima un fondamento intellettuale alla pratica amministrativa dello Stato moderno. Gli Stati tedeschi del XVIII secolo, e in particolare la Prussia, operavano come autocrazie centralizzate assistite da funzionari forniti di cultura giuridica, i quali lavoravano in collegia o organismi consultivi, fornivano consigli ed esercitavano particolari funzioni di governo. Tuttavia il sistema collegiale non rispondeva alle necessità di decisioni rapide e di formulazioni chiare e non ambigue. Era poco pratico quando si trattava di redigere documenti e gli individui potevano nascondersi dietro la responsabilità collettiva. Sotto l’impatto dell’esempio napoleonico e delle nuove richieste avanzate al governo, la Prussia e altri Stati tedeschi posero mano a riforme che istituivano il sistema unitario o di bureau, nel quale la responsabilità veniva attribuita a un singolo funzionario tenuto a rendere conto a un superiore ben preciso. La gerarchia di cariche che ne scaturì fu spesso considerata l’essenza della burocrazia, che in questo senso non indicava pertanto un nuovo tipo di governo: gli autori tedeschi difendevano spesso questo sistema amministrativo, atto a garantire responsabilità ed efficienza, dalle generiche proteste contro i funzionari considerati come classe, casta o gruppo di interesse. Non va dimenticato, in tale guisa, che l’impulso che diedero in tal senso giuristi come Jhering, Laband sia all’assetto civilistico della responsabilità, al concetto moderno di bilancio pubblico, sia al suo intreccio con il costituzionalismo trasversale sfociato poi nella cosiddetta Drittwirkung di metà Novecento è sicuramente chiaro e non di poco conto.

A Max Weber e al di lui fratello Alfred è attribuito il merito di aver fondato il moderno studio della burocrazia. In particolare Max, il più celebre dei due, elaborò questi studi familiari in una teoria della relazione tra elementi ideali ed elementi materiali nell’azione umana che spiegava perché il potere, il controllo sociale e la mobilitazione delle masse si concentrassero attorno a idee. La burocrazia divenne il modo materiale precipuo in cui le idee venivano tradotte e attivate nella vita sociale. Più che una forma della società divisa in classi, la burocrazia fu da lui considerata lo stampo rigido nel quale veniva esplicata l’azione umana. [5]

In un capitolo scritto tra il 1911 e il 1913 per il suo più importante trattato, Economia e società, Weber tratteggiò le caratteristiche della burocrazia moderna. Essa si fonda su sei principî generali: le attività sono organizzate in maniera fissa e stabile; vi è una gerarchia di autorità; esiste un sistema preciso di registrazione e documentazione basato su archivi; il personale viene istruito al proprio compito; l’attività di funzionario costituisce un’occupazione a tempo pieno; la gestione dell’ufficio è fondata su regole tecniche. [6]

(iii) Nel precedente paragrafo si acclarava come il lemma burocrazia identifica, anche, il corpo dei funzionari devoti a far funzionare la macchina amministrativa; orbene, tale accezione si evidenzia anche a livello europeo dove i cittadini del vecchio mondo hanno visto crescere sempre di più il numero dei dipendenti pubblici.

Negli Usa, ad esempio, i burocrati federali sono la categoria professionale più istruita del paese, vengono da famiglie medio-alto borghesi, hanno frequentato scuole ed università come la cosiddetta Ivy League. Si mescolano però con gli appointees, cioè quegli uomini nominati dalla presidenza (con l’advise and consent del Senato). Questi burocrati, che si situano in cima alla piramide amministrativa, sono a termine: decadono con la fine della presidenza che li ha nominati, secondo le antiche regole dello spoils system.

Tutto ciò è tipicamente di stampo anglosassone laddove ad una eleganza teorica fa sempre di contrappasso un intento pratico in quella che Max

Weber definiva “etica protestante”.[7]

Negli USA le burocrazie professionali partecipano attivamente al processo di formazione della policy e sono, di conseguenza, portatrici di valori propri, che possono non coincidere con quelli del policy maker elettivo.[8] La politica, in particolare, fa suoi due paradigmi fondamentali della teoria economica, distinguendosi dalla tradizionale scienza della politica: (a)il libero scambio di mutuo vantaggio fra i membri della collettività e (b)l’obiettivo di massimizzazione della propria funzione di utilità da parte di ciascun agente. In questo ambito la Public choice ha per lungo tempo seguito un modello, detto di massimizzazione del bilancio, proposto da William Niskanen, per il quale gli uffici pubblici sono portati ad utilizzare le informazioni e le conoscenze acquisite per ottenere un finanziamento più elevato del necessario da parte di politici relativamente disinformati ed inesperti. Buchanan, che è il maggior teorico della pubblic choice, prevede un

fallimento dello Stato che è impossibilitato a fornire beni e servizi efficienti senza incappare in ingenti sprechi di risorse finanziarie. In particolare la critica è rivolta contro i burocrati che detengono le conoscenze e, quindi, il potere di realizzare le scelte pubbliche. Questa categoria tenderà sempre al raggiungimento del prestigio sociale mediante la massimizzazione dei propri bilanci, a prescindere dall’interesse pubblico, ciò perché di fatto non possono appropriarsi dei profitti conseguiti con il proprio lavoro e poiché le loro capacità non vengono riconosciute dallo Stato, che le riconosce solo agli imprenditori privati.[9]

Dagli anni ottanta del secolo scorso si è sviluppata, in tal guisa, la teoria del New Pubblic Managment che, prendendo lo spunto dalla pubblic choice, ha avuto come priorità quella di aumentare l’efficienza e l’economicità del settore pubblico, mediante un rallentamento della sua crescita attraverso la privatizzazione di aziende pubbliche e l’applicazione dei progressi tecnologici. Si è fatta strada la deregulation intesa come trasferimento di attività, prima di competenza esclusivamente statale, all’attività privata e coincide con la liberalizzazione e privatizzazione dei mercati, rappresentando una svolta epocale nella politica amministrativa americana.

In ogni caso tutta la storia dello studio della burocrazia americana è inserita in un contesto più ampio che mira alla ricerca dell’efficienza ed accomuna la scienza dell’amministrazione agli studi aziendalistici.

In altre parole oltreoceano la burocrazia è funzionale mentre nel vecchio continente ha un suo stampo profondamente politico.

(iv)Forse il momento più caratterizzante dell’alchimia capace di produrre il fenomeno della burocrazia difensiva è l’iperproduzione normativa e il groviglio che si genera per chi quelle norme le dovrebbe applicare in qualità di prestatore di pubblico servizio: la causa dell’inefficienza amministrativa viene spesso individuata nell’incapacità delle pubbliche amministrazioni di attuare correttamente e tempestivamente la legge; alla burocrazia viene addebitata la responsabilità di intralciare la libera iniziativa privata e di non perseguire il fine del bene pubblico.

Ogni decisione amministrativa, sia essa piccola o grande, comporta che in campo ci vadano una serie di risorse e queste risorse hanno un costo plurimo. Orbene, la pubblica amministrazione esercita ogni volta che entra in campo un potere e tale potere, giocoforza, intacca degli interessi, personali, collettivi che si traducono in necessarie interazioni tra le amministrazioni dello Stato, delle regioni e degli enti locali. Le amministrazioni pubbliche devono, seguendo la Grundnorm dell’art.97 della Costituzione, attraverso l’imparzialità che devono possedere in re ipsa, creare il giusto bilanciamento tra interesse pubblico e interesse privato. Per fare ciò servono adeguate regole che sappiano dare spazio a chi tali interessi li deve equilibrare, di poter essere nella condizione di farlo e per farlo servono poche regole ma adeguate.

E’ più che evidente come un cattivo esercizio della funzione normativa si traduca in cattive regole: questa è quella che chiamiamo la cosiddetta burocrazia normativa, la quale per far sì che sia combattuta bisogna che si agisca su due livelli: quello normativo e quello amministrativo.

Non v’ha dubbio, perché rilevato dai dati di fatto e dalla statistica, che l’Italia è il Paese europeo con il più elevato grado di produzione normativa: il punto focale, però, è nel modo in cui si elaborano le leggi e nel loro grado di dettaglio; le modifiche costituzionali di inizio secolo ( Titolo V della carta costituzionale, per esempio, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo) hanno accentuato tale produzione e di concerto, la tematica appena accennata, non riguarda solo la normazione primaria, ma anche le fonti secondarie prodotte dalle stesse pubbliche amministrazioni a diversi livelli: amministrazioni statali, enti territoriali, autorità indipendenti ed enti pubblici. Magmatica nonché prismatica prospettiva!

Tra tutti, un bell’esempio è l’intervento sui contratti pubblici del 2016: intorno ad essi un affastellamento di norme a tutti i livelli e gradi nel tempo. Interventi spesso affrettati, staccati dalla realtà e quindi spesso e volentieri, per questo loro ontologica contraddizione in termini, oggetto di revisione, mutamento, correzione. Come potersi regolare in questo perimetro allargato a dismisura? In un processo fondamentale, basilare per lo sviluppo strutturale del Paese, del benessere dei suoi cittadini e dell’economia medesima? Un altro bell’esempio è dato dall’amministrazione digitale, che avrebbe bisogno di una regolazione flessibile per adattarsi alla endemica evoluzione tecnologica. Invece, ulteriori opere di delegificazione e riordino ne hanno di molto arretrato il necessario adeguamento e progresso. Il Fisco poi rappresenta da sempre un esempio calzante: una legge quadro datata primissimi anni ’70 e un numero di leggi pari circa a ottocento susseguitisi in cinquanta anni: la necessità vorace di cassa continua non concede tregua alla definizione chiara, netta e precisa di una tematica fondamentale per uno Stato.

In questi tre esempi (giusto i più eclatanti e importanti ma ce ne sarebbero molti altri la cui citazione e approfondimento rischierebbe di andare fuori tema) come in molte altre materie inerenti alla pubblica amministrazione, i principali veicoli normativi, che alimentano una normazione eccessivamente dettagliata e spesso poco incisiva sulla reale portata della materia da normare, sono costituiti dai decreti-legge del Governo (che per esempio, per la materia fiscale sarebbero esclusi dallo Statuto del contribuente: art.4 legge 212/2000) oltre che da maxiemendamenti alle leggi di bilancio, redatti ancora in modo più frettoloso.

Che il Governo sia il regista dell’attività legislativa è più che normale nelle forme di governo parlamentare ma è alquanto anomalo che, da un lato, il Governo non è dotato di adeguate strutture stabili per la redazione dei provvedimenti normativi; dall’altro la quantità di decreti legge, cioè provvedimenti di urgenza e il loro grado di dettaglio supera di gran lunga la produzione legislativa.

Un famoso aforisma di Bertolt Brecht recitava: “Non mi piace dove sto andando e non mi piace dove sono stato. E allora perché sono di fretta”?

Questa ultima parola, fretta, appunto, sintetizza il periodo che si vive non solo sociale ma anche all’interno della PA: e allora l’aforisma del drammaturgo tedesco calza a pennello se non ci si ferma a pensare che questa eccessiva produzione normativa, frettolosa, altro non fa che produrre un’impasse nell’azione amministrativa e soprattutto genera un’osmosi tra essa e la legge stessa scaturendo in un conflitto la cui degenerazione è facile intuire cosa e chi vessa.

La fretta fa sì, inevitabilmente, che i provvedimenti normativi non siano preceduti da un’adeguata istruttoria: aldilà di ogni considerazione che la più elementare logica porta a esaminare, il risultato in pratica è a volte paradossale ovvero l’introduzione nell’ordinamento di una norma analoga ad altra già vigente che comporta l’ineluttabile confusione di quale fattispecie applicare all’inerme e interprete. Ciò comporta anche notevoli costi sia economicamente che in termini di tempo: risorse da sfruttare che nel periodo devoluto all’interpretazione perdono la bussola su altre funzioni.

In tale senso la cosiddetta paura della firma ha un suo accondiscendente alleato: interpretare una moltitudine di norme non è agevole per nessuno.

La teoria della public choice può supplire a volte ma altre volte rimane pura teoria se la norma che di concerto deve accompagnare la scelta non è chiara.

La legge per essere concepita ha bisogno di un iter lungo e approfondito; il decreto-legge rappresenta una scorciatoia agile e diremmo per niente rappresentativo di una democrazia parlamentare. L’abuso di ciò è anche l’eccessiva fiducia che i politici ripongono nello strumento legislativo siffatto; risultato che l’impotenza del legislatore deve per forza fare ricorso a pene e sanzioni che si inaspriscono a discapito dell’efficienza amministrativa.

I rimedi a tutto ciò potrebbero essere molteplici ma si sa per una trasformazione i tempi non sono mai brevi. La deregolamentazione potrebbe rappresentare un primo rimedio: eliminare inutili doppioni o norme superflue garantirebbe di certo un più facile interpretazione e di conseguenza un’agevole applicazione della norma.

In tale guisa, anche l’abbassamento del livello della disciplina, tipicamente dalla legge al regolamento amministrativo, che consente una maggiore fruibilità in termini di adattabilità della disciplina medesima potrebbe rappresentare un notevole passo in avanti. La delegificazione così intesa potrebbe essere prevista anche a beneficio di fonti e forme di regolazione di altro tipo, come la contrattazione collettiva per il pubblico impiego e più di recente le linee guida di amministrazioni statali o autorità indipendenti: si pensi alle linee guida dell’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) in materia di contrattualistica pubblica poi ridimensionate da un successivo intervento legislativo.

Il secondo rimedio, forse il più importante e corposo, che pretenderebbe però che il Parlamento riuscisse in una comunità d’intenti seria e devota al pubblico interesse, è rappresentato dai testi unici ovvero dalla codificazione che disciplini in poche norme ma specifiche e armoniche la disciplina che interessa: se è vero come è vero che il diritto deve adeguarsi ai tempi che mutano  e i parametri della cosiddetta soft law, forte anche di esperienze straniere, riesce di volta in volta a sopperire la mancanza di una disciplina precisa è anche vero che oggi con l’affermarsi dei principi costituzionali in maniera trasversale o come si dice da più porti a geometria variabile non dovrebbe più essere un problema riuscire a creare un testo organico che vada a normare aspetti fondamentali.

Tali operazioni di riordino, però, sappiamo incontrano due ostacoli principali. Il primo è che esse richiedono una forte volontà politica che superi la resistenza e lo status quo delle amministrazioni. servirebbe in tal senso una

politica lungimirante ma sappiamo che l’intervento sulle norme poco interessano gli elettori che, invece, sono attratti da personalismi piuttosto che da politiche che interessino la comunità; il secondo ostacolo è quello che il riordino normativo richiede un organo centrale che sappia dare una struttura precisa alle procedure che si vogliono adottare di volta in volta, come avviene nel Regno Unito  con la Law Commission  oppure in Francia con la Còmmission Supérieure de Codification  che in virtù della propria prossimità al potere politico sia in grado di indirizzare l’esercizio dei poteri normativi senza essere distratta dall’ordinaria attività legislativa.

Viene in mente l’opera immensa fatta dalla Commissione Nigro che sfociò nella legge 241/90 che ha rappresentato per l’Italia un concreto ammodernamento del sistema con l’introduzione del procedimento amministrativo.

A quanto sinora scritto circa le cause d’inflazione normativa, va aggiunto il rapporto tra politica e PA. 

La classe politica in Italia non ha più una sua costante linearità: si assiste a cambiamenti continui e repentini di schieramento da parte di un politico ovvero di un altro a scapito di quel principio fondamentale che è la rappresentanza         politica, fulcro        inossidabile        di      una   democrazia rappresentativa e parlamentare. Ciò genera una breve durata delle legislature e dei suoi programmi e soprattutto logora la direttiva e l’impulso che la politica deve alla macchina amministrativa.

S’innesca così un circolo vizioso circa il problema della responsabilità e delle gravi sanzioni che ne derivano: il fenomeno delle cosiddette leggiprovvedimento; della legittimità di tali provvedimenti spesso i dirigenti dubitano per la complessità, ambiguità e contraddittorietà dei provvedimenti stessi. 

Gli intrecci di competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali ha creato e crea un ulteriore magma nel contesto burocratico. Gli ambiti di legislazione statale e regionale o locale alimentano la produzione normativa; molteplici ambiti governativi non riescono a dare l’effettività che si richiede e come naturale corollario abbiamo che il cittadino e le libere iniziative private sono oppresse, schiacciati dal peso di normative complesse e troppo articolate. La riforma del Titolo V per alcuni ha apportato dei benefici ma per molti è stata ed è profondamente contraddittoria che ha come lascito il vuoto su alcune materie che dovrebbero essere di competenza dell’uno invece lo sono dell’altro e viceversa; la sussidiarietà invocata più volte spesso inasprisce i connotati della guerra di competenza tra lo Stato e gli enti territoriali che ha, quindi, come conseguenza un intervento statale spesso frammentato e poco incline al reale bisogno di quel territorio. In questo contesto è sempre l’aspetto politico a farla da padrone: non si ha una dialettica più tra Stato e singolo territorio circa le istanze che necessitano a quest’ultimo ma uno scontro politico alimentato dall’esausto antagonismo politico tra forze di maggioranza, opposizione e partiti trasversali. 

Tutto ciò inoltre evoca e inasprisce ciò di cui questo elaborato intende brevemente occuparsi ovvero il problema burocratico di cui l’assetto repubblicano delle autonomie territoriali risente forte e cioè il vuoto istituzionale e amministrativo che il sistema politico nazionale non ha voluto o non è stato in grado di riempire o comunque di interpretare in maniera proficua ed in tale ottica si parla spesso di burocrazia incolpevole. La gestione del territorio forse dovrebbe avvalersi di funzionari amministrativi con grande preparazione e maggiore capacità decisionale che sappia oltrepassare i muri di quanto finora detto e sappia agire in maniera autonoma. Il ponte di Genova ne è un esempio.

(iv) Nella premessa è stato evidenziato, con una lista di esempi, ciò che questo fenomeno, in nuce, rappresenta. Negli ultimi anni tale fenomeno si è espanso: è stato specificato nel capitolo precedente come uno dei fenomeni scaturenti la burocrazia difensiva sia la elevata ed inflazionata produzione normativa di fonte tra l’atro tutt’altro che primaria, lo scollamento tra politica e apparato amministrativo e la formazione dello stesso che induce sempre a protrarre le decisioni e a mantenere lo Stato in uno stallo, bloccato nelle sue priorità e di conseguenza di quelle dei cittadini.

Burocrazia difensiva è terminologia recente che indica un problema antico. L’art. 75 della Costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII (13 dicembre 1799) stabiliva che “gli agenti del Governo, tranne i ministri, non possono essere perseguiti per fatti relativi alle loro funzioni, se non in virtù di una decisione del Consiglio di Stato”. La garanzia del funzionario mirava a evitare che l’azione amministrativa potesse essere intralciata o ritardata dalla prospettiva della responsabilità: al fondo, si trattava di prevenire la burocrazia difensiva. Quell’antico istituto, da Tocqueville in poi divenuto bersaglio privilegiato della critica liberale al diritto amministrativo, è oggi solo un ricordo del passato. Non però il problema che esso affrontava. Dopo due secoli (quasi esatti), nel 1998, la Corte costituzionale italiana ha indicato l’esigenza di “un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità̀ ragione di stimolo, e non di disincentivo” (C. cost. n. 371 del 1998). La Corte Costituzionale oggi, grazie all’osmosi con la collega sovranazionale europea, cerca di sopperire a tale guado: frequenti nella sua attività sono gli obiter dicta volti a liberare da tali pastoie uno Stato che sembra un regime quando bisogna aver a che fare con il pubblico (quotidianamente, quindi) ma il suo potere non è quello di legiferare e il limite evidente rimane.

Perché burocrazia difensiva? Il termine nasce dalla cosiddetta medicina difensiva che iniziò a svilupparsi negli anni ’70 negli USA indicando il medico che onde evitare di prendere una decisione precisa sulla patologia del paziente rinviava a infiniti consulti e a una posologia non ben definita.

La “medicina difensiva” è identificabile in una serie di decisioni, attive od omissive, consapevoli e inconsapevoli, che non obbediscono al criterio essenziale del bene del paziente, bensì all’intento di evitare accuse per non aver effettuato tutte le indagini e tutte le cure conosciute o, al contrario, per aver effettuato trattamenti ad alto rischio di insuccesso o di complicanze. Un piccolo cenno storico cui si fa risalire tale fenomeno si attesta  nel IV secolo a. C. ed è riportato da Curzio Rufo nelle Historie Alexandri Magni: l’autore narra che Alessandro, gravemente ferito in battaglia, non riuscì a trovare alcun medico disponibile a intervenire per asportare la freccia che si era conficcata nel suo corpo, sino a quando lo stesso, conscio della gravità della lesione e delle ragioni per le quali i chirurghi erano tanto restii a intervenire, promise saggiamente l’impunità a tal Critobulo, che alfine lo operò.

La medicina difensiva, quindi, sia essa praticata in forma “positiva-attiva” ovvero in forma “negativa-passiva” compromette così l’efficienza allocativa della spesa sanitaria, investita nelle risorse umane e tecnologiche dedicate alla prevenzione ed alle cure.

Traslata nel coacervo delle pubbliche amministrazioni, l’espressione burocrazia difensiva qualifica un modo di essere che gli amministratori ed i dipendenti pubblici adottano nell’assunzione delle proprie decisioni amministrative, siano esse espresse in forma di comportamento o provvedimento, attivo od omissivo.

L’esercizio di tale forma investe di più il potere discrezionale piuttosto che quello vincolato; la ragione di ciò è che prima di prendere una decisione si antepone il rischio che si corre all’effettivo esercizio dello stesso che dovrà avere i suoi effetti su una particolare fattispecie. L’aggravamento dell’istruttoria e dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi o la reiterazione di prassi contrarie ad ogni semplificazione amministrativa sono momenti sintomatici del fenomeno.

Con riferimento agli ambiti di attività, nei quali gli agenti pubblici sono più sensibili a calcolare in termini di responsabilità il rapporto rischio- decisione amministrativa – e dunque ad assumere comportamenti difensivi – hanno particolare rilievo il settore sanitario insieme al settore dei contratti pubblici e più in particolare delle opere pubbliche, dalla sua fase genetica fino alla esecuzione.

I costi di tutto ciò sono altissimi in termini economici e tenuta psico-fisica sia per l’amministrazione centrale, sia per l’amministrazione locale che per i privati.

Quella contabile è stata la prima forma di responsabilità riferita ai soggetti operanti nelle pubbliche amministrazioni: è stata introdotta nel Regno d’Italia, con la l. 14 agosto 1862, n. 800 ed attribuita alla giurisdizione della neo istituita Corte dei conti, prima magistratura italiana, a tutela del maneggio di denaro pubblico. La disciplina procedurale e sostanziale di tale forma di responsabilità è stata nel tempo perfezionata, con una serie di regi decreti degli anni Trenta del Novecento . La funzione giurisdizionale della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge è stata, poi, scolpita nell’art. 103, c. 2, della Carta costituzionale. La responsabilità amministrativa costituisce il frutto della evoluzione della giurisdizione contabile, che ha iniziato a considerare, quale fonte di danno, non più esclusivamente la spesa illegittima, bensì ogni forma di lesione di interessi giuridicamente rilevanti ed economicamente valutabili dello Stato persona da parte di chiunque violi i doveri derivanti da un rapporto di servizio con un soggetto pubblico. In tal senso il combinato disposto dell’art. 28 della Costituzione con l’art. 2049 del codice civile, in perfetta sintonia con la trasversalità della carta costituzionale e del principio dell’occasionalità necessaria, trovano ampio terreno su cui operare. Col tempo, la responsabilità amministrativa ha finito con l’assorbire le ipotesi di responsabilità contabile in senso stretto, in origine limitata agli agenti contabili, ossia agli impiegati titolari di funzioni di diretto maneggio di denaro o beni erariali. Negli anni Novanta del secolo scorso sono state introdotte una serie di riforme dettate, in primo luogo, dal mutamento di paradigma dovuto all’espansione dell’attività amministrativa di prestazione, nello svolgimento di compiti di welfare tipici dello Stato sociale. Si è passati da una visione strettamente legalistica, dove l’effettività dell’azione pubblica rilevava prevalentemente sotto il profilo formale di efficacia e validità degli atti amministrativi, ad una prospettiva dinamica dell’azione amministrativa, da valutare sulla base dei criteri di matrice aziendalistica dell’efficacia, dell’economicità e dell’efficienza.

La responsabilità amministrativa, come rilevato anche nei precedenti paragrafi, è da lungo tempo considerata un possibile elemento di freno all’efficienza dell’azione dei pubblici poteri. In particolare, il fattore maggiormente studiato in relazione alla burocrazia difensiva è l’elemento psicologico necessario ad imputare la responsabilità in capo al dipendente pubblico. Il tema è emerso già all’indomani dell’adozione del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, che ha generalizzato il limite del dolo o della colpa grave a tutti i dipendenti pubblici, in precedenza limitata ad alcune categorie settoriali. Precedentemente a questa ultima riforma, la giurisprudenza della Corte dei conti riteneva che la normativa allora vigente (art. 82 l. cont. St. e art. 52 t.u. Corte dei conti) affermasse la responsabilità per colpa ordinaria della generalità dei dipendenti, cosicché ogni graduazione o attenuazione della responsabilità avrebbe rappresentato «una eccezione (di dubbia costituzionalità!) al principio generale».

Una delle principali azioni introdotte di recente dal legislatore italiano per affrontare il problema della burocrazia difensiva, nel tentativo, coeso, di superare la c.d. ‘paura della firma’ degli amministratori e dei funzionari pubblici, è stata la limitazione dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa per i danni causati alla pubblica amministrazione. Prima della riforma del 2020, le fonti di responsabilità erano tutte le azioni e le omissioni commesse con colpa grave o con dolo. Il “decreto semplificazioni 2020” ha confinato provvisoriamente – attualmente, fino al 30 giugno 2023 anche in virtù della gestione dei fondi connessi al PNRR e alle relative opere – la responsabilità amministrativa ai soli casi in cui la produzione del danno derivi da una condotta commissiva dolosa. Tale limitazione non si applica per i danni cagionati da omissioni o inerzie del soggetto agente. Inoltre, è stato inserito, all’art. 1, c. 1, della l. n. 20/1994, il seguente inciso: «La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso». Questa ultima disposizione ha inteso porre fine al dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la riconduzione dell’elemento psicologico del dolo alla nozione civilistica, ovvero a quella penalistica. Una parte della giurisprudenza, infatti, riteneva che, ai fini dell’imputazione della responsabilità amministrativa, il dolo si presumesse dalla volontaria violazione degli obblighi di servizio e non fosse necessaria una consapevolezza di cagionare un danno ingiusto, trattandosi di dolo «c.d. contrattuale, ravvisabile nel proposito intenzionale di non volere adempiere ad un obbligo ovvero nella volontà preordinata alla violazione di un preciso obbligo inerente al rapporto contrattuale». Da tale ricostruzione discendeva una inversione dell’onere probatorio, che imponeva all’agente pubblico danneggiante la dimostrazione dell’assenza di dolo. Con la riforma del 2020, è stata esclusa la possibilità di ricorrere alla suddetta presunzione, interpretando il dolo con riferimento all’art. 43 del Codice penale, non essendo più sufficiente dimostrare una violazione cosciente di un precetto, in quanto viene richiesta la prova della concreta volontà dell’evento dannoso. Ciò ha ulteriormente accentuato la sopra citata tendenza verso una concezione pubblicistica e sanzionatoria della responsabilità amministrativa. 

Innanzi alla Corte dei Conti – giudice, in doppio grado giurisdizionale, della responsabilità amministrativa, in quanto materia ricompresa dal legislatore nella nozione costituzionale di “ contabilità pubblica” (art.103 co.II, Cost; art.1 d.lgs n.174 del 2016) – gli agenti pubblici sono infatti chiamati a rispondere dei danni (i cosiddetti “danni erariali”) suscettibili di quantificazione economica, cagionati con dolo o colpa grave  sia alle pubbliche amministrazioni di appartenenza sia ad altre pubbliche amministrazioni. Il danno erariale ha quindi subito una profonda evoluzione: il danno così come concepito dall’esperienza sabauda – che a sua volta prese a modello l’esperienza del Regno delle Due Sicilie ovvero della  Regia Camera della Sommaria, istituita quest’ultima nel 1444 quando a Napoli durante il periodo di regno degli Aragonesi, riordinava in un solo organismo la Curia magistrorum rationalium e quella dei Presidenti della Camera dei conti, documentate almeno dal 1269 nei registri della

Cancelleria angioina, poi sostituita nei suoi compiti dalla Regia Corte dei conti nel 1807, introdotta da Giuseppe Bonaparte – si è diciamo così sdoppiato lasciando il primordiale concetto agli agenti contabili mentre la responsabilità amministrativa fonte altresì di danno erariale ha dato vita a diverse species del genus danno erariale come il danno da disservizio, danno da concorrenza e altri che via via la giurisprudenza contabile ha enucleato ed enuclea.

E’ ben risaputo che il danno può essere diretto ed indiretto; nel primo caso lede direttamente il patrimonio dell’amministrazione vessata dalla condotta dell’agente pubblico; nel secondo caso la lesione da danno avviene per il risarcimento patito da terzi cui l’amministrazione deve fare fronte in quanto un suo agente contabile lo ha provocato.

Con la sentenza n. 8 del 2022, la Corte ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro, in riferimento alle modifiche della disciplina del reato di abuso di ufficio

Le censure, sollevate in relazione agli artt. 3, 97 e 77 Cost. sono state respinte dalla Corte, in particolare con riferimento all’ultimo parametro, sul rilievo che, secondo una percezione diffusa, la disciplina dell’abuso di ufficio rappresenta una delle principali cause della c.d. burocrazia difensiva e che questo fenomeno, a sua volta, costituisce uno dei principali ostacoli al rilancio economico del Paese. Scrive, a ragione, Bettini nel commentare la sentenza de quo– in Giornale del diritto Amministrativo 4/22 – che “ l’abuso di ufficio è una sorta di rinvio mobile al diritto amministrativo, che così penetra, per così dire tutto insieme, nel sistema penalistico, portandosi dietro i suoi problemi e le sue contraddizioni, a partire dai cambiamenti intervenuti sul piano di una sempre più complessa relazione fra politica e amministrazione, da intendersi sia sotto il profilo funzionale della relazione fra legge e decisione amministrativa, sia sotto il profilo strutturale della relazione fra titolari politici e titolari professionali di uffici pubblici”. Continua lo stesso autore che “l’abuso di ufficio è considerato, verrebbe da dire ontologicamente, un eccesso di potere intenzionale assai più che una dolosa violazione di legge, per cui la scelta legislativa di ricondurre il reato a questa seconda figura, anziché alla prima, è apparsa al giudice quasi in contrasto con la natura delle cose. La violazione di legge, per quanto il legislatore ne sottolinei l’importanza nel descrivere la fattispecie di reato, resta in certa misura, nella ricostruzione giurisprudenziale, un elemento aggiuntivo, non il cuore dell’infrazione. Ciò che scatena la reazione punitiva dell’ordinamento, infatti, è sempre il dirottamento della funzione pubblica a fini privati, che ovviamente può implicare la violazione di specifiche previsioni legislative che orientano l’azione amministrativa verso il fine pubblico. Tra i fattori che alimentano la burocrazia difensiva, secondo una percezione diffusa e anch’essa ritenuta plausibile dalla Corte, vi è il reato di abuso di ufficio, o, per meglio dire, il modo in cui la giurisprudenza, in parte vanificando precedenti interventi legislativi di riforma, ha interpretato tale fattispecie criminosa, allargando le maglie del requi- sito della violazione di legge fino a (tornare a) ricom- prendervi l’eccesso di potere. Per tali ragioni, la modifica del reato di abuso di ufficio, contenuta nel D.L. n. 76 del 2020, che apertis verbis esclude la rilevanza penale dei vizi di eccesso di potere, è costituzionalmente legittima sia sotto il profilo della sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza, sia nel merito, perché la criminalizzazione dell’eccesso di potere intenzionale non è scelta legislativa che sia imposta dalla Costituzione.

Tale percezione, ovviamente, sfocia nel pubblico funzionario, il burocrate, inteso in senso funzionale, il quale ovviamente risente degli aspetti che praticamente tale sentore provoca quotidianamente. Ed infatti, i dati ufficiali elaborati a più riprese da Banca d’Italia e da altri soggetti istituzionali, come Istat, Dipartimento Conti Pubblici Territoriali (CTP) dell’agenzia di coesione territoriale e Unioncamere, attestano una perdurante carenza di investimenti in infrastrutture anche in chiave comparata, dimostrata dalla minore percentuale della spesa pubblica in conto capitale rispetto al PIL.

L’abuso d’ufficio, la sua esatta portata ai tempi che cambiano e alle esigenze del Paese: questa parrebbe la traccia che si è data di svolgere la nuova Legislatura insediatasi ad Ottobre 2023 la quale, avendo inteso lo stallo del paese, ha da subito dedicato molti sforzi affinché sia definitivamente conformato e allocato nel suo alveo e non sia motivo di blocco ovvero di motivo di danno erariale nel senso di ulteriore costo del non fare.

  • Nel lontano 1919 Don Luigi Sturzo nel suo Appello ai “liberi e forti” per fondare il Partito popolare così tuonava: “Vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione”. E’ trascorso un secolo e qualcosa ed ancora quel grido è attuale, perciò la burocrazia è un tema atavico ed il quadro è ancora fosco perché la digitalizzazione in corso non ha scalfito procedure e tempi.

Nell’epoca del “tutto” digitale, l’amministrazione è ancora fondata su molti aspetti sul modello ottocentesco, fatto di protocolli, copie di archivio, lettere di trasmissione, ci colleghiamo al sito dell’amministrazione, stampiamo il modulo ottocentesco e compilatolo a mano lo re-inviamo! 

David Graeber [10]ha ben saputo descrivere questo fenomeno sostenendo che la digitalizzazione non ha fatto altro che ingigantire la burocrazia rendendola ancora più estenuante per il privato che ha a che fare con essa. Scriveva Graeber: “in Germania fu la posta a creare lo stato-nazione. Grazie a una famiglia aristocratica i baroni von Thurn und Taxis (dice la leggenda che un discendente della famiglia fu l’inventore del tassametro, da cui il taxi prenderebbe il nome) crearono in Prussia il monopolio della comunicazione postale. Nel 1867 l’impero prussiano rilevò il monopolio dei Thurn und Taxis e lo usò per gettare le basi di un nuovo servizio postale nazionale tedesco. Alla fine dell’ottocento, il servizio postale tedesco era a dir poco impressionante, con 5-9 consegne al giorno nelle principali città, e chilometri e chilometri di tubi pneumatici che attraversavano il sottosuolo di Berlino per consegnare quasi all’istante lettere e piccoli pacchi grazie a un sistema ad aria compressa. 

Dopo la guerra civile, con l’affermazione del capitalismo societario, anche gli Stati Uniti si avvicinarono al modello tedesco di capitalismo burocratico. Ancora una volta le forme di una società nuova, più libera e razionale, sembravano emergere all’interno delle strutture stesse dell’oppressione. Negli Stati Uniti, per dire “nazionalizzazione” si usava il calco “postalizzazione”, poi completamente scomparso dal linguaggio. Nell’immaginario collettivo statunitense la figura dell’impiegato postale è diventata sempre più triste. Ma proprio mentre si combatteva questa guerra simbolica contro il servizio postale, è nata una nuova infatuazione, simile a quella per la posta a cavallo del settecento e dell’ottocento. Possiamo riassumerla in questo modo: 

  1. Una nuova tecnologia di comunicazione nasce in ambito militare.
    1. La tecnologia si diffonde rapidamente, trasformando in modo radicale la vita quotidiana.
    1. Quindi conquista una fama di sfolgorante efficienza.
    1. Dato che si basa su princìpi diversi dal libero mercato, è subito adottata dai movimenti radicali, che la considerano un modello per un futuro sistema economico non capitalista in grado di svilupparsi all’interno del capitalismo stesso.
    1. Allo stesso tempo diventa uno strumento di controllo per il governo e favorisce la proliferazione di nuove infinite forme di pubblicità e scartoffie indesiderate.”

Basta leggere il Referto 2019 della Corte dei Conti in materia di informatica pubblica o la Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul livello di digitalizzazione e innovazione delle pubbliche amministrazioni e sugli investimenti complessivi riguardanti il settore delle tecnologie per capire che le conclusioni a cui le stesse pervengono che sono disarmanti.

L’aspetto più evidente emerso è probabilmente la scarsa conoscenza e applicazione della normativa relativa al digitale: tale tematica andrebbe approcciata in maniera strategica e in maniera prioritaria. Tutto ciò se si considera che sin dal 1981 l’allora Comunità Europea riteneva che l’apporto informatico era fondamentale per far cambiare il passo all’amministrazione.

La speranza è che il passo cambi allorquando giovani cresciuti digitalmente creeranno una unica “app” e così interloquire con la PA sarà come fare un acquisto online; viceversa saremo sempre più sommersi da pec, carte bollate timbri e protocolli, come nel film di Totò e i re di Roma, e a rendere il tutto più risibile è il fatto che siamo in un’epoca dove non è più consentito tutto ciò.

  • Quanto sin qui emerso non è certamente incoraggiante: la pubblica amministrazione italiana spesso non è in grado di offrire le risposte e il sostegno necessario a far funzionare a dovere la macchina che gli è stata conferita di guidare e ciò a discapito delle iniziative imprenditoriali, dello sviluppo economico nonché della semplice vita e aspettative di un singolo cittadino. Da sempre si esorta di proporre un vero cambio d’azione per migliorare la qualità delle amministrazioni pubbliche italiane evitando interventi confusi e confusionari.

Il cambio di passo deve partire da un’educazione civica sin dalla tenera età. Potremmo scrivere in queste pagine di tecniche, adombrarsi a tantissime infarciture accademiche e di dottrina, mutuare inglesismi roboanti, ma sarebbero lettera morta se non si parte dalla base comune, l’istruzione, che è appunto il luogo di crescita di un pupillo.

In tal senso anche e soprattutto una riforma della scuola è necessaria: per esempio, è inutile assegnare milioni di pagine da studiare se quelle pagine non sono modellate ai tempi che cambiano (e qui sarebbe d’uopo, ad esempio descrittivo e non esaustivo, concentrarsi su cosa sia la storia e cosa la storiografia).

Circa poi i rimedi all’iperinflazione normativa si è già riferito; forse, le pubbliche amministrazioni non dovrebbero limitarsi a pubblicare i testi normativi ma anche ad offrire una guida alla loro interpretazione e applicazione e non a trincerarsi dietro inutili paratie di circolari dirigenziali sull’orario al pubblico o alla pandemia che in molti casi ha rappresentato una efficace e ottima scusa per evitare il contatto con un pubblico inerme e vessato doppiamente.

In altre parole, la burocrazia, quella la cui accezione porta a pensare a pachidermiche strutture lontani anni luce dai bisogni di ciò per cui è stata creata, si combatte anche con il seguire una strada maestra le cui diramazioni potrebbero essere un’amministrazione facile e con uno sforzo di collaborazione e di assistenza volta a sostenere i cittadini a districarsi nel pesante giogo e nel complesso coacervo amministrativo il cui peso rimane a loro carico; introducendo una forma di responsabilità politica codificata laddove il politico che non porta a termine le sue promesse, aldilà delle cause scriminanti, debba sapersi fare da parte, lasciando lo spazio a chi ha da proporre idee evolutive.

Forse solo così riusciremo a smentire Honoré de Balzac allorché ebbe a definire “La burocrazia come un meccanismo gigante mosso da pigmei” e queste parole potrebbero piano piano apparire solo un ricordo, di una epoca che fu e che non intacca il benessere delle future generazioni.


[1] Albrow M. (1974) Burocrazia, Bologna- il Mulino – studioso di scienza dell’amministrazione, partendo dagli studi dei fratelli Weber ha elaborato la teoria dei sette significati tra loro strettamente connessi, nel senso che col maturare degli studi sociali, psicologici ed economici, il termine si è progressivamente arricchito di significati estendendo i propri confini . 

[2] Hegel, G.W.F., Lineamenti di filosofia del diritto – Bari 1987 – Lezioni sulla filosofia della Storia Firtenze 19731975. Egli osservò che gli Europei erano stupiti per l’attenzione che gli storici cinesi manifestavano verso i più piccoli dettagli che caratterizzavano l’organizzazione dello Stato. Questa costituiva tuttavia una caratteristica intrinseca della loro storiografia, dal momento che gli storici avevano un ruolo ufficiale di alto livello. L’osservazione di Hegel individuava una connessione tra amministrazione statale e storiografia che non è accidentale, in quanto entrambe rappresentano esempi di principî razionali applicati a una società nel suo complesso.

[3] Weber M.1919 La politica come professione, Torino, Einaudi, 2004 – Weber M. (1968), Economia e Società

[4] Nel Dizionario tecnico-etimologico-filosofico (Milano 1828), di M.A. Marchi, la burocrazia veniva così definita:

“Neologismo, per indicar il poter de’ Commessi nell’amministrazione de’ pubblici affari” (p. 138).

[5] Op.cit

[6] L’applicazione di questi principî faceva sì che la gestione di un ufficio divenisse una vocazione e richiedesse una dedizione continua, ripagata dalla sicurezza del posto.6 Si trattava dell’adempimento del proprio dovere rispetto a un ordine impersonale, non rispetto a persone particolari. Il funzionario acquisiva una notevole considerazione sociale, soprattutto quando si richiedeva un’alta competenza, e il principio di selezione era determinato dai requisiti di istruzione necessari all’incarico. Esito normale di tale situazione era lo svolgersi della carriera, ossia la progressiva ascesa nel corso della vita da posizioni meno retribuite a posizioni elevate meglio retribuite. Weber considerò questo sistema dominante non solo nello Stato ma anche nell’impresa capitalistica, dove il proprietario poteva ritenere di esercitare due funzioni – nell’ambito economico e in quello privato – con due differenti modalità. Esso vigeva anche nelle organizzazioni ecclesiastiche, ed era possibile rintracciarne l’origine nell’antico Egitto, a Roma e in Cina.

[7] Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (Firenze 1984) dal culto del lavoro come etica e spirito religioso nascono le fondamenta del capitalismo moderno. 

[8] Di pregio lo Studio condotto in questo ambito comparatisco e in generale sulla burocrazia da Giuseppe Motta attraverso la propria pagina web e “C’è ancora bisogno della burocrazia?” (Agorà&Co. -2016)

[9] Guy Peters B. (2001) The Politics of Bureaucracy – London- Routledge; J.M.Buchanan Stato,mercato e Libertà

(Mulino 2006); W.A.Niskanen Burocarzia:Serva o Padrona? (Einaudi 1979).

[10] Graeber D. (2016), Burocrazia. Perché le regole ci perseguitano e perché ci rendono felici – Il Saggiatore

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