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A proposito di recenti arresti giurisprudenziali circa la natura del rapporto di lavoro negli uffici di diretta collaborazione con l’autorità politica.

dell’Avv. Cristiano Maninchedda, funzionario della pubblica amministrazione[1]

La peculiarità degli Uffici di diretta collaborazione delle Autorità di Governo (Presidente del Consiglio, Ministro, Sottosegretario) era già contemplata dal regio decreto-legge 10 luglio 1924, n. 1100, convertito in legge 21 marzo 1926, n. 597, che costituì formalmente i gabinetti dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato, prevedendo le dotazioni di personale, i criteri di scelta degli stessi, nonché le funzioni di collaborazione da prestare al Ministro e al Sottosegretario, con l’espressa previsione di divieto di intralcio alla normale azione degli uffici amministrativi e di sostituzione agli stessi.

Poi, con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, di razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, è stato espressamente stabilito il principio della separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa[2].

Il decreto legislativo n. 165 del 2001 ha confermato tale impostazione.

In particolare il comma 2 dell’art. 14 di tale d. lgs. prevede che “per l’esercizio delle funzioni di cui al comma 1 il Ministro si avvale di uffici di diretta collaborazione, aventi esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione, istituiti e disciplinati con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 4-bis, della legge 23 agosto 1988, n. 400. A tali uffici sono assegnati, nei limiti stabiliti dallo stesso regolamento: dipendenti pubblici anche in posizione di aspettativa, fuori ruolo o comando; collaboratori assunti con contratti a tempo determinato disciplinati dalle norme di diritto privato; esperti e consulenti per particolari professionalità e specializzazioni con incarichi di collaborazione coordinata e continuativa. All’atto del giuramento del Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di livello dirigenziale e le consulenze e i contratti, anche a termine, conferiti nell’ambito degli uffici di cui al presente comma, decadono automaticamente ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro”.

La norma prevede, quindi sia un potere di organizzazione degli uffici di staff dell’Autorità politica – che si modella secondo i principi di cui al comma 1 dello stesso articolo e dell’art. 4 del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001 – sia di un potere di reclutamento del personale, pubblico e privato (con varie tipologie negoziali) addetto agli uffici di diretta collaborazione, in tal modo organizzati.

E’ chiaro, dunque, che la facoltà dell’Autorità politica di formare ed organizzare il proprio staff è espressione al massimo grado di discrezionalità amministrativa, che non appare sindacabile dal G..O., se non nei limiti della disapplicazione dell’atto di organizzazione a monte degli uffici di staff, che, in questo modo, appaiono situarsi in una zona grigia tra organi responsabili dell’indirizzo politico ed organi responsabili dell’attività amministrativa, con riflessi sulla generale gestione, organizzazione ed articolazione organizzativa dell’Amministrazione [3].

Va, al riguardo, precisato che l’organizzazione degli uffici di diretta collaborazione rappresenta plasticamente un esempio degli atti di c.d. macroorganizzazione; pertanto “sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti gli atti amministrativi adottati dalle Pubbliche Amministrazioni nell’esercizio del potere loro conferito dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 2, aventi ad oggetto la fissazione delle linee e dei principi fondamentali della organizzazione degli uffici, nel cui quadro i rapporti di lavoro si costituiscono e si svolgono, caratterizzati da uno scopo esclusivamente pubblicistico, sul quale non incide la circostanza che gli stessi, eventualmente, influiscano sullo “status” di una categoria di dipendenti, costituendo quest’ultimo un effetto riflesso, inidoneo ed insufficiente a connotarli delle caratteristiche degli atti adottati “iure privatorum” (tra le altre, Cass. SSU 8821/2018, 8363/2007). Nell’emanazione di tali atti organizzativi la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro esercita, infatti, un potere autoritativo in deroga alla generale previsione del successivo art. 5, secondo cui la gestione del rapporto avviene con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (Cassaz. Sez. Lavoro sent. n. 17140/2019).

La posizione giuridica di coloro che ricoprono incarichi di diretta collaborazione si sostanzia in una figura assimilabile per vari aspetti a quelli che configurano il c.d. “funzionario onorario”, figura elaborata in dottrina e precisata, nei suoi contorni, dalla giurisprudenza.

Al riguardo, dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente concordi nel ritenere che si sia in presenza del “funzionario onorario” ove ricorrano i seguenti elementi (vds. ad es. Cassaz., Sent. n. 41999/2021):

  1. la scelta del soggetto cui affidare l’incarico non concorsuale ma rimessa a valutazioni di tipo politico discrezionale sostanzialmente libere;
  2. la assoluta temporaneità e precarietà del rapporto, legato al permanere delle condizioni di personale fiduciarietà[4] che ne costituiscono la base, a fronte della durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di lavoro del dipendente pubblico, non legato a vincoli di tipo fiduciario con l’Organo politico (cfr. Consiglio di Stato sez.IV, n. 1272 del 24 marzo 2005);
  3. l’inserimento non strutturale, ma meramente funzionale, del soggetto prescelto, nell’apparato amministrativo;
  4. il rapporto regolato pressoché esclusivamente dall’atto di conferimento dell’incarico e dai principi generali che regolano i rapporti di tale specie;
  5. il compenso avente natura e funzione indennitaria e di ristoro dell’impegno richiesto dalla carica, e non natura retributiva e sinallagmatica, come ordinariamente avviene per il pubblico dipendente.

Gli elementi sopra citati da 1 a 5 incidono sugli atti di gestione del rapporto di lavoro, alla cui origine sta una valutazione personale ed una espressione volitiva dell’organo politico cui è affidato il potere di scelta nell’affidamento dell’incarico (sentenza TAR Lazio n. 13193/2020, confermata da Consiglio di Stato, sentenza n. 6072 del 20 giugno 2023).

Ciò sul presupposto dell’inserimento dell’incaricato nella struttura creata dall’Autorità politica.

Al riguardo si ribadisce che la disciplina legislativa che regola in via generale il funzionamento degli uffici di diretta collaborazione degli Organi di Governo (art. 14 del decreto legislativo n. 165 del 2001) prevede esplicitamente la facoltà del Ministro di affidare incarichi di diretta collaborazione a soggetti estranei o meno all’amministrazione, che egli ritenga idonei.

Si tratta appunto di incarichi che la stessa disposizione prevede come temporanei, in quanto la loro durata massima coincide con la durata del mandato dell’Organo politico, ed inoltre cessano automaticamente in caso di cessazione anticipata del mandato, dovuta a dimissioni del singolo Ministro ovvero a cessazione anticipata della legislatura.

La ragione, poi, della natura strettamente discrezionale della scelta dei soggetti da nominare alle cariche in argomento risiede nella necessità che ha l’Organo politico – per l’espletamento di funzioni diverse da quelle attribuite dalla legge all’Amministrazione – di acquisire collaboratori con i quali abbia un particolare rapporto fiduciario, senza dover sottostare ai vincoli delle norme che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici.

La legittimità della dipendenza dell’incarico dal permanere delle condizioni di personale fiduciarietà è stata confermata dalla Corte costituzionale che “con sentenza n. 304 del 28 ottobre 2010, ha ritenuto costituzionalmente legittima la previsione per cui gli incarichi conferiti nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione decadono automaticamente ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro, affermando che essa si giustifica proprio alla luce del rapporto strettamente fiduciario che deve intercorrere tra l’organo di governo ed i soggetti di cui si avvale per svolgere l’attività di indirizzo politico-amministrativo” (sentenza TAR Lazio n. 13617/2022).

Pertanto la disciplina degli incarichi in questione appare “fondata sui principi di temporaneità e fiduciarietà, che trovano applicazione a prescindere dalla natura apicale o meno dell’incarico conferito” (Consiglio di Stato, sentenza n. 6072/2023, cit.).

Facendo applicazione di tali principi una recente sentenza della Corte d’appello di Roma rileva, circa l’affidamento di un incarico di tale tipo, che “la tipologia delle mansioni da affidare all’appellante, all’atto di nomina, dimostrano che la stessa sia avvenuta “intuitus personae” e che, perciò, il rapporto di lavoro sussistente tra le parti fosse connaturato da uno spiccato vincolo fiduciario. Alla luce delle suddette considerazioni, la Corte ritiene che il caso di specie sia sussumibile nell’ ipotesi di revoca anticipata per interruzione del vincolo fiduciario, sicché se ne rileva la piena legittimità…….Occorre osservare, in via incidentale, la natura preminentemente discrezionale degli atti di alta amministrazione, come quello di revoca dell’incarico “de quo”, paragonabile a quella degli atti politici in cui emergono scelte di opportunità politica” (Corte d’appello di Roma, sent. n. 64/2023).

Giova, a questo punto, evidenziare che – nell’ambito considerato – il concetto di incarico fiduciario in senso civilistico spesso appare sovrapporsi (ed essere usato come sinonimo) con l’incarico intuitu personae. In verità in quest’ambito il termine fiducia non sembra tanto essere usato in senso civilistico, ma appare evocare un concetto analogo a quello della fiducia parlamentare di cui deve godere il Governo in carica: ciò in quanto i componenti degli uffici di diretta collaborazione “collaborano” (per l’appunto) con l’Autorità politica nello svolgimento di attività politica e di alta amministrazione[5].

Tutto ciò permea anche la regolamentazione dei singoli aspetti che derivano da un rapporto così configurato.

Al riguardo l’art. 14 del d.lgs.n. 165/2001 sopra richiamato prevede anche, al comma 2, ultimi due periodi, che “con decreto adottato dall’autorità di governo competente, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, è determinato, in attuazione dell’articolo 12, comma 1, lettera n) della legge 15 marzo 1997, n. 59, senza aggravi di spesa e, per il personale disciplinato dai contratti collettivi nazionali di lavoro, fino ad una specifica disciplina contrattuale, il trattamento economico accessorio, da corrispondere mensilmente, a fronte delle responsabilità, degli obblighi di reperibilità e di disponibilità ad orari disagevoli, ai dipendenti assegnati agli uffici dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato. Tale trattamento, consiste in un unico emolumento, è sostitutivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale”.

La ratio della norma è, evidentemente, salvaguardare le peculiarità della figura del “funzionario onorario”, “a fronte delle responsabilità, degli obblighi di reperibilità e di disponibilità ad orari disagevoli”, vale a dire, “ausilio permanente” (senza orario prestabilito) a favore dell’Autorità politica e – allo stesso tempo – contemperare la previsione di un tetto di spesa adeguato che serva da parametro all’organo politico.

Riassuntivamente, alle ipotesi in questione non sembra, dunque, applicabile tout court la normativa generale del pubblico impiego[6].

A conferma di ciò se da un lato l’art. 2, comma 3, del D.P.R. n. 62/2013 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici) prevede che “le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 estendono, per quanto compatibili, gli obblighi di condotta previsti dal presente codice a tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche”, dall’altro lato per l’assolvimento di tali incarichi non appare applicabile un istituto generale del pubblico impiego, quale la necessaria insussistenza di cause di incompatibilità/inconferibilità (così la Delibera n. 803 del 18 settembre 2019 dell’ANAC).

Se – dunque – l’applicazione del Codice di comportamento sembra essere applicato sulla base della necessità di assicurare l’osservanza dei principi costituzionali connessi allo svolgimento di pubbliche funzioni ed in particolare “il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico[7], l’insussistenza di cause di incompatibilità/inconferibilità sembra essere in re ipsa, in quanto l’attività considerata non ha natura gestoria/amministrativa per definizione.

In conclusione, come abbiamo già evidenziato, gli atti che determinano tale rapporto di collaborazione con l’Autorità politica sfuggono alle logiche del lavoro subordinato e sono derogatori ai principi del pubblico impiego (ma non del tutto, anche perchè si tratta comunque dello svolgimento di funzioni pubbliche e le risorse impiegate derivano pur sempre dall’Erario); più articolata appare la posizione dei dipendenti pubblici assegnati all’ufficio di diretta collaborazione (come recita il comma 2 dell’art. 14 citato) “nei limiti stabiliti dallo stesso regolamento….anche in posizione di aspettativa, fuori ruolo o comando[8].

Per questi ultimi dunque, quanto alle fonti regolatrici del rapporto, la disciplina del pubblico impiego appare doversi coordinare con il regolamento di cui sopra, con l’atto istitutivo della struttura di diretta collaborazione e con l’atto di assegnazione/contratto di assunzione.


[1] Il presente articolo è frutto di elaborazione personale dell’Autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.

[2] L’art. 7 del d.lgs.n. 300/1999 definisce il contenuto essenziale degli Uffici di diretta collaborazione nei Ministeri.

[3] Cfr. per un approccio sistematico e critico Carmine De Angelis “Le anticamere del potere. Note sugli uffici di diretta collaborazione” in Rivista Trimestrale di Scienza dell’amministrazione n. 4/2022.

[4] Cfr. anche L.Torchia, Il percorso delle riforme. Gli uffici di diretta collaborazione nel nuovo Ministero per i Beni e le Attività culturali, in “Rivista di arti e diritto on line” n.2, 2001.

[5] Cfr. I soggetti con incarico fiduciario, Francesco Merloni, in ASTRID, La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, a cura di F. Merloni e L. Vandelli, Passigli, 2010

[6] Al riguardo si precisa che “è da considerare di natura non pubblica il rapporto di lavoro degli elementi estranei all’Amministrazione assunti nelle segreterie dei membri del Governo (art. 2 d. lg. 17-11-1944 n.335) (CdS, IV, 27-4-1976 n.291)”: cfr. R. Garofoli e G.Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, pag. 254, XI ed..

[7] Vds. premesse al Codice di comportamento.

[8] Si tratta di ipotesi che presuppongono il consenso dell’interessato/dipendente pubblico, ribadendosi così il carattere libero del vincolo a prestare l’opera anche per il personale in questione.

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