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Il principio contabile del divieto del “soccorso finanziario” a fronte di situazioni deficitarie irreversibili riguardanti la gestione di servizi pubblici locali. La Corte Costituzionale ne conferma la validità a tutela della regola ordinamentale delle necessarie misure da assumere per ridurre i “costi organizzativi”. Profili storico-istituzionali.

a cura dell’Avv. Federica Scalia, Ricercatrice dell’Istituto “Max Weber”

SOMMARIO: Premessa; 1. La necessaria riduzione dei costi organizzativi, tra funzioni svolte direttamente e funzioni assegnate alla responsabilità di organizzazioni esterne;2. La politica nazionale della riduzione progressiva dei costi organizzativi della P.A., a partire dalle spese del personale. Il ricorso alla funzione consultiva della Corte dei conti, dal 2003; 2.1 La legislazione di base posta in essere per contenere/ridurre i costi organizzativi nel contesto degli Enti Locali. Il ruolo assegnato alla Corte dei conti; 2.2 Le modifiche intervenute nel tempo sul tema dei costi (dal costo del lavoro al costo degli apparati), tra cause oggettive e ritardi nelle analisi di competenza del sistema dei controlli interni ed esterno; 3. Il sistema dell’amministrazione indiretta nel settore degli Enti Locali. I primi interventi con l’intento di ridurre i costi, nel 2010; 4. Il controllo sul sistema organizzativo dell’“amministrazione indiretta” degli Enti Locali esercitato dalla Corte dei conti.

Premessa

Con la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 110/2023, depositata il 5 giugno , si richiama all’attenzione del Legislatore regionale (in questo caso, del Consiglio regionale del Molise) sull’esistenza – nel complesso sistema ordinamentale italiano – di un principio fondamentale rientrante nella materia del “coordinamento della finanza pubblica”: il principio del divieto del “soccorso finanziario” a carico di un qualsiasi Ente pubblico (regionale/ locale) che abbia assunto la decisione di esternalizzare (nella convinzione, rivelatasi del tutto fallace, di migliorarne l’erogazione e/o di ridurne i costi ) alcuni servizi pubblici a organismi quali sono quelli previsti, nel contesto del complesso sistema degli Enti Locali, dall’art. 2, c. 1, lett. g) e dall’art. 20, c. 2, del TUEL (Corte dei conti, delib. Sezione delle Autonomie n. 15/2021, pag. 36), ma che rivelano elementi di criticità finanziaria tali da sconsigliarne il mantenimento in vita.

Tanto che nella richiamata deliberazione n.15/2021 , sottoposta alle valutazioni del Parlamento (come tutte le altre precedenti a questa), si sottolinea, da parte della Magistratura contabile, come “con riguardo ad aspetti di sana gestione finanziaria siano state esaminate le erogazioni in favore degli organismi partecipati in perdita”, al fine, tra l’altro, di verificare il rispetto del divieto di soccorso finanziario di cui all’art. 6, c. 19, del decreto-legge n. 78/2010 (convertito dalla legge n. 122 /2010, successivamente ripreso e confermato dall’art. 14, c. 5, del d.lgs. n. 175/2016).

Non si è mancato, anche in tale anno, di rilevare “situazioni critiche di società partecipate da enti locali che, seppure in liquidazione da diversi anni, fanno registrare perdite reiterate, con risvolti negativi sui bilanci degli enti soci che continuano a ripianarle con esborsi annuali significativi”.

A fronte di tali situazioni anomale , di cui si riconosce il danno derivante alle casse dell’Ente Locale finanziatore (per violazione dolosa di un dovere istituzionale, quello di assumere misure tali da evitare sprechi di denaro pubblico), non si può fare a meno di fare una scoperta: a distanza di tempo, si deve riconoscere come la decisione assunta, sull’onda della tanto auspicata “esternalizzazione” (c.d. outsourcing) non ha perseguito “il risultato” atteso per una carenza di cui soffrono ancora le istituzioni locali (l’ assenza di quella assistenza tecnico-amministrativa, prevista all’art. 19, agli enti locali del TUEL, ma non attivata) per un distorta concezione del termine “autonomia organizzativa” tanto decantata tra gli Enti Locali), finendo le comunità locali per sopportare i costi di apparati inutili, perché non in grado di rendere il servizio pubblico per il quale erano stati tali organismi costituiti.

Ma una novità porta con sé questa sentenza: l’affermazione che un siffatto modo di agire – stigmatizzato dall’Avvocatura generale dello Stato – contrasti anche con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost..

Si tratta di un consistente passo avanti nel riconoscere alla Corte dei conti di avere avuto l’intuizione giusta: è in tale principio che si recupera il valore da assegnare ai parametri in cui esso può essere scomposto, dal parametro dell’economicità (non si possono sopportare costi che non assicurano risultati) a quello della efficienza (rapporto costi/benefici), a quello della efficacia (enti inutili non sono mai in grado di apportare benefici alle comunità).

Per tale via, anche nel campo della contabilità pubblica, il principio del buon andamento deve sovraintendere alle scelte in cui la discrezionalità (amministrativa, così come anche quella tecnica) va usata ma sempre utilizzata “cum grano salis”.

Se ci si pone la domanda più ovvia, oggi, cioè perché non si è approfondito questo tema – quello del modo come debbano essere fatte le scelte politico-amministrative – da parte degli amministrativisti, e lo si è lasciato ai giuscontabilisti, non si trova che una sola risposta: la sottovalutazione della applicabilità del principio del buon andamento, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 196/2009, resa non operativa dall’assenza di interventi  sistematici del controllo indipendente esterno della Corte dei conti, intestato dall’art. 3, c. 4 e c. 12, della legge n. 20/1994.

Purtroppo, c’è anche da dire come il tema della “esternalizzazione” dei servizi pubblici locali (in particolare) non è stato affrontato dalla politica (Parlamento) in tempi recenti. Una politica che avrebbe dovuto porre rimedio – nelle intenzioni di chi l’ha proposta – al caos in cui versava il sistema degli Enti Locali, a seguito della entrata in vigore dell’art. 22 della legge n. 142/1990.

Infatti, se ne fa risalire la prima trattazione agli anni ‘90 del secolo scorso in un contesto ordinamentale diverso dal nostro e attento, comunque, ad analizzare i costi ([1]).

Ma quando si è ritenuto di dover assumere, tra le tante possibili misure, quella  del  riutilizzo diretto (processi di internalizzazione) delle risorse umane operanti nel contesto degli organismi affidatari della gestione dei servizi pubblici ( che si era pensato di sopprimere), ci si è ritrovati a dover fare i conti con il principio costituzionale che obbliga la P.A. a ricorrere necessariamente alla selezione pubblica delle stesse, basata sulla verifica del merito dei candidati che abbiano presentato domanda al bando/alla selezione pubblica.

Questo fenomeno, quindi, attraversa temporalmente i diversi livelli di amministrazione (centrale, periferica) e non poteva non formare oggetto di analisi e di ricerca sia da parte degli amministrativisti sia da parte dei giuristi d’impresa.

Così che, alla fine degli anni ’90, possiamo leggere alcune indagini su tale fenomeno, che meritano di essere citate per la loro completezza: 1. il Progetto finalizzato sulla “Esternalizzazione della P.A. italiana”, a cura del Dipartimento della Funzione pubblica; 2. il documento “Servizi pubblici locali esternalizzati ed esternalizzabili” a cura di Italia Lavoro; 3. il documento “Problemi e prospettive dell’outsourcing nel sistema della P.A. italiana” (2003), curato dal Censis.

Da tali ricerche è dato condividere la tesi di una parte della dottrina che ritiene questo non essere un argomento marginale nello studio del c.d. “mondo degli Enti Locali”.

Si tratta, anzi, di un fenomeno gestorio che ha visto aumentare lo spazio di un processo decisionale (discrezionale, fino a che non sono state elaborate le prescrizioni contenute nella “Guida all’esternalizzazione di servizi e attività strumentali nella P.A.” a cura del Dipartimento della Funzione Pubblica, nel 2004) di competenza delle burocrazie, speranzose che il “modello del principal-agent”, elaborato da economisti statunitensi ([2]), potesse risolvere “tout court” i problemi organizzativi e, di conseguenza, funzionali dell’Ente pubblico locale .

È in tale “Guida” (prodotta, purtroppo, con colpevole ritardo…) che si formula una certa quale professione di fede su tale scelta organizzativa (dato che non solo i servizi sono da ritenere esternalizzabili ma anche alcune attività): “…un adeguato impiego delle politiche di esternalizzazione, finalizzato a rendere realmente competitiva l’amministrazione che se ne avvale, poggia su una buona base contrattuale.

Quest’ultima è, infatti, il punto di arrivo di corrette scelte manageriali su costi e benefici e, a un tempo, il punto di partenza un sistema efficiente di controlli e verifiche, volti ad accertare nel tempo utilità e funzionalità rispetto agli obiettivi prefissati.

Tutto ciò in una prospettiva di conseguimento di economicità di medio periodo ([3]) e di rafforzamento della capacità competitiva ed operativo-gestionale dell’amministrazione pubblica interessata”.

In assenza di un benché minimo grado di funzionalità raggiunto dal sistema dei controlli interni (in particolare, dal “controllo di gestione” quale definito con estrema precisione  dall’ art. 4, del d.lgs. n. 286/1999; controllo che sarebbe dovuto servire a verificare, a mezzo di indicatori specifici, i costi diretti e indiretti di qualsiasi funzione/attività/servizio pubblici esercitati), il richiamo alla “economicità di medio periodo” da conseguire – come risulta esplicitata nella richiamata “Guida” – suona come una beffa in quanto appare collocata  fuori da qualsiasi ragionevole disegno politico; tanto che  se ne parla ancora oggi…

Senza l’applicazione di questi indicatori, come si sarebbe potuto parlare di “costo standard” (che altro non è che il costo medio/mediano acquisito a sistema dopo analisi svolte a tappeto) nella legge sul c.d. “federalismo fiscale” e, in particolare, nel d.lgs. n. 216/ 2010? ([4]).

Tranne, poi, mancando le analisi della Corte dei conti sul tema ([5]), a ricercare un altro soggetto ([6]) che tale incombenza tecnica avrebbe dovuto offrire, una volta che fosse stato applicato il principio di “armonizzazione dei bilanci” … ([7]).

Si legge sul sito come “i fabbisogni standard rappresentano uno strumento per indicare ai Comuni gli obiettivi di medio periodo per l’adeguamento della propria spesa nel campo delle funzioni fondamentali nei settori in cui si riscontrino scostamenti dagli standard individuati”.

D’altra parte, il Dipartimento della Funzione Pubblica non si è preoccupato di fissare adeguati “indicatori di costo” né mai ha indicato il sistema di calcolo degli stessi. Lasciando che le Amministrazioni facessero cadere nel nulla l’analisi economica dell’attività amministrativa e dei servizi svolti (unica analisi fondata su dati matematici). E ciò nonostante i risultati operativi – assai significativi – conseguiti dal Progetto “Funzionalità ed Efficienza della P.A.” realizzato con successo alla fine degli anni 80 del secolo scorso ([8]).

Probabilmente, bisogna partire, oggi, dai risultati conseguiti anche perché senza l’utilizzo saggio del costo-standard non si può riuscire a realizzare l’autonomia differenziata di cui all’art.116, c. 3, della Costituzione ([9]).

L’affidamento a soggetti istituzionali “terzi” (quegli “organismi” che risultano elencati nel TUEL) ([10]) della gestione dei servizi pubblici locali è stato concepito e, quindi, realizzato per perseguire una finalità “interessante” (pur essendo la copiatura di una scelta fatta molti anni prima dal Governo degli USA) ([11]) nel contesto della dottrina denominata “New Public Management”: la finalità di evidenziare come dalla sua applicazione sarebbero derivati solo miglioramenti al sistema amministrativo e ai suoi utenti.

Della finalità “occulta” poco si parla: quella di soddisfare il desiderio, da parte della classe politica locale, di ampliare la “clientela”, assicurando contributi e sovvenzioni al nuovo organismo affidatario tali da coprire il relativo costo aggiuntivo che sarebbe derivato da nuove assunzioni (con conseguente aumento del costo del personale, fattore della produzione che ha un peso preponderante tra quelli propri cui tali soggetti devono far fronte).

Solo a distanza di anni dalla decisione di far nascere tali “modelli organizzativi”, l’Ente Locale si è accorto – mettendo sistematicamente a tacere i dati revenienti dal “controllo di gestione”, ove fosse stato attivato – di avere, a carico del proprio bilancio, dei “pesi morti”.

Ma l’idea di doversene disfare non è stata coltivata subito. La giustificazione a questo tipo di inerzia è da ricercare in quella “finalità occulta” cui si è fatto esplicito richiamo ([12]) ma che rimane nell’ombra, dovendo formare oggetto di indagine da parte della sociologia del diritto.

Si è dovuto attendere l’anno 2016; anno in cui è entrato in vigore il decreto legislativo n. 175, recante il “Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica”. Anche se, più correttamente, bisognerebbe andare indietro nel tempo, all’anno 2010.

Anno in cui, in maniera assai esplicita (considerati i tentennamenti espressi negli anni precedenti e le relative formulazioni normative anodine in tema), si è espressa la volontà parlamentare, resa edotta dai risultati di indagini inequivocabili portate avanti da diversi anni dalla Corte dei conti; indagini che sono state capaci di mettere a nudo il sistema delle partecipazioni comunali/provinciali.

Solo, quindi, le riflessioni svolte dalla Corte dei conti e, in particolare, dalla Sezione delle Autonomie, nei suoi referti annuali (alias, reports) – sempre più ricchi di dati e di informazioni – al Parlamento nazionale sullo stato degli organismi partecipati dagli Enti Locali ([13]) hanno indotto lo stesso ad avere una sempre minore indulgenza nei confronti di un fenomeno che ha finito per assumere dimensioni notevoli e, per molti versi, aspetti grotteschi.

A tale valutazione risultava indotta la stessa Magistratura contabile tutte le volte che essa si è trovata ad analizzare “da vicino” casi di soggetti/organismi-fantasma: tali si possono qualificare quelli (agents) che non sono in grado di fornire più alcun servizio, ma che richiedono all’Ente istitutore (principal) di ripianare le perdite accumulate.

Fino a che si è offerto al sistema di potere (Sindaco e Assessori) degli Enti Locali ([14]) un testo normativo in grado di porre i decisori politici al riparo dalle rappresaglie portate avanti da quanti si vedevano ridurre drasticamente fonti di guadagno personali, perseguendo una forma evidente di “locupletatio sine titulo”.

Testo normativo che – come si è accennato – assume sue proprie caratteristiche qualche anno più tardi con l’art.14, c. 5, del richiamato d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (TUSP).

Disciplina integrata dal d.lgs.16 giugno 2017, n. 100 (art. 5) che impegna la Corte dei conti a svolgere una funzione di controllo “ex ante”, cioè prima che la decisione di partecipazione a società venga assunta e ci si possa ritrovare di fronte a un aumento di spesa pubblica incapace di perseguire i risultati (che si conformano solo come “sperati”). Un controllo indipendente esterno che viene a tutelare la comunità locale da processi decisionali che non interpretano correttamente, in definitiva, il principio del buon andamento (in cui il parametro della economicità va letto in funzione del parametro della efficacia, e quindi in termini di costi/benefici).

Principio che vediamo richiamato, per la prima volta, nella sentenza della Corte Costituzionale sottoposta a commento. Ma la cui lettura deve essere integrata con quanto dispone l’art. 2325, c. 1, del codice civile secondo cui “[n]ella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio”.

A tal riguardo, non si può fare a meno di richiamare la Suprema Corte di Cassazione che ha espresso un suo specifico orientamento (non estendibile ad altre tipologie di soggetti/organismi), secondo cui la scelta della P.A. di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta ([15])

Sullo sfondo della interpretazione fornita dalla Magistratura civile, dato che le regole da applicare ai bilanci pubblici sono quelle poste a tutela della integrità degli stessi, rimane nitidamente ferma la scelta del Legislatore, quella di voler applicare al sistema burocratico (al centro come alla periferia) la contabilità analitica: una disciplina recuperata da quella della “economia delle organizzazioni” che costringe a misurare l’accountability dell’ente pubblico – come si è accennato – in uno con quella dell’organismo creato.

1.    La necessaria riduzione dei costi organizzativi riguarda sia le funzioni svolte direttamente dall’ente pubblico sia le “funzioni esternalizzate”.

Chi detiene adeguate (oltre che veritiere) informazioni sul costo delle attività strumentali, sulle attività funzionali svolte da un Ente pubblico?

La risposta a questa domanda – in apparenza semplice – risulta essere stata data, nella prima metà degli anni ‘70 del secolo scorso, da un docente di economia americano (e non certo da un giurista), William Arthur Niskanen.

Costui, in ragione dei risultati di alcune sue indagini sul modo di operare, negli U.S.A., delle burocrazie – in quanto il loro operato risulta assoggettato al controllo di un organismo indipendente, il General Accounting Office, posto a supporto del Congresso – giunge a formulare alcune affermazioni assai negative, che – a quel tempo (1968-1975) – suscitano reazioni contrastanti tra i membri del G.A.O. e tra i vertici delle burocrazie. Finendo per convincere i rappresentanti del Congresso a rifondare con un nuovo act il modo di agire del G.A.O, il cui controllo si era rivelato, secondo Niskanen, “inetto” e perciò “inutile”.

Affermazioni che si presenta(va)no in netto contrasto con la dottrina dominante, quella elaborata da Max Weber ([16]), che aveva scritto in inglese – prima dello scoppio della 1^ guerra mondiale – un libretto dal titolo “La politica come professione” ([17]), decantando le virtù etiche della burocrazia tedesca e il rispetto che essa aveva acquisito tra il Popolo per il principio della più totale fedeltà al perseguimento del benessere comune.

Niskanen, a differenza di Weber, pone sotto la lente di ingrandimento del ricercatore i comportamenti delle burocrazie e, in particolare, di quella parte di esse che si qualifica come “classe dirigente” ([18]). Con l’intento di portare alla luce alcuni aspetti che si riconnettono tutti all’uso che la dirigenza è solita fare del bilancio pubblico.

Questo economista fornisce alcune chiavi di lettura che inducono molti studiosi a ricredersi sul modo e, quindi, sugli effetti del controllo esercitato, fino ad allora, dal G.A.O..

I miglioramenti da apportare alla funzione di controllo di tale Organo sono stati chiaramente indicati da Niskanen allorquando avrà modo di esprimersi, come rappresentante dell’Amministrazione degli U.S.A., con la preparazione del testo fondamentale sul ruolo delle Corti dei conti approvato nel 1977 a Lima, in Perù. Nazione in cui, in quell’anno, si riunirono i rappresentanti delle Istituzioni superiori di controllo, aderenti all’INTOSAI, agenzia dell’OCSE.

William Arthur Niskanen (1933-2011)

La lettura della “Dichiarazione di Lima” risulta fondamentale per comprendere il ruolo di garante delle finanze pubbliche che è chiamata a svolgere una Istituzione superiore di controllo in un ordinamento democratico ([19]).

Così che, oggi, a distanza di molti anni dalla condivisione che si è avuta dei principi contenuti in tale “Dichiarazione” da parte delle Istituzioni superiori di controllo, la funzione del controllo indipendente viene ad essere qualificata come necessaria, in quanto posta a tutela della sfera di coloro che contribuiscono al funzionamento degli apparati. Sia degli apparati civili che degli apparati militari, dove, tra l’altro, il principio di gerarchia (considerato da Weber un criterio organizzativo che qualifica positivamente il modo di essere delle burocrazie) ha una diffusione più pervasiva.

Apparati che vanno riguardati come “organizzazioni” di cui l’attività di controllo (anche interno, a mezzo delle tecniche di rilevazione proprie del “controllo di gestione”) ([20]) deve essere in grado di rilevare il modo come l’azione amministrativa si realizza, i tempi richiesti con i quali essa raggiunge a soddisfare i destinatari, i costi che risultano essere a carico della collettività (ovvero del bilancio pubblico) o del singolo.

Elementi questi, da sottoporre a verifica e ad accertamenti con la collaborazione attiva delle organizzazioni controllate, che non costituiscono una novità … in quanto la novità va ricercata altrove, in particolare nella “nuova visione” che di qualsiasi organizzazione pubblica si deve avere. Quella di un apparato produttivo che deve assicurare dei risultati.

Giuseppe Cataldi – Presidente della Corte dei conti dal 1973 al 1976, a tal riguardo, afferma una grande verità in occasione di una sua audizione richiesta dal Parlamento il 27 ottobre 1982, a proposito dell’approccio mentale che si sarebbe dovuto avere per realizzare quello che nel 1977 si era preconizzato da parte del prof. Niskanen: “Tutta la discussione che si va facendo sul concetto di controllo di gestione, di economicità, di efficienza, di redditività, etc. a che si riduce?”

A questa domanda il prof. Cataldi risponde così, nel migliore dei modi possibili: “A considerare anche lo Stato con l’ottica dell’azienda. La distinzione tra azienda di erogazione e di produzione non sembra più valida.

Ogni organizzazione che svolge attività, anche distributiva o erogativa o, come si dice in Scienza dell’amministrazione, ogni operatività, qualunque essa sia, è produzione.

Anche agli atti a contenuto strettamente giuridico, sono prodotti o di certezza o di conferimento di utilità, o di assicurazione di sicurezza, ecc.; sia gli atti amministrativi, sia le sentenze sono prodotti.”

E cosi conclude: “Ora se non si considera con questa prospettiva l’attività statale, con scarsa proficuità si potrà usare il risultato di quel controllo di gestione che si vuole che la Corte dei conti esplichi”.

Tutto questo presuppone che anche la mentalità delle dirigenze ( e di quanti esercitano su di esse un controllo)  sia diversa, diventi e acquisti i toni propri di quella del management  privato.

In Italia, nel 1972 (dieci anni prima di tale evento richiamato), questo disegno di rinnovamento ha trovato in un complesso normativo un esempio concreto di disciplina, cioè nel testo del d.P.R. n. 748, che si intitola “Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo”.

Da quella data, le dirigenze statali sono state richieste di effettuare periodiche “autoanalisi” del loro modo di agire: infatti, a norma dell’art. 17, c. 1, si è prescritto che “i dirigenti … debbano riferire al Consiglio di amministrazione sul modo con il quale si è svolta l’azione amministrativa … sui risultati concreti ottenuti, con particolare riguardo al buon andamento dell’Amministrazione, all’ordinamento dei servizi e alla loro efficienza… formulando, altresì, le opportune proposte per la razionalizzazione dei servizi, lo snellimento delle procedure, la riduzione dei costi e, in genere, il miglioramento dell’azione amministrativa”.

In questa disposizione ci sono tutti quegli elementi che il testo del d.lgs. n. 29/93 (alias n. 165/2001) riprenderà ma ritenendo di dover  interporre tra le dirigenze e il decisore politico un organo di controllo interno, nella considerazione che le cose dette dalla dirigenza presentano delle falle, delle non-verità, dei vuoti di memoria ([21]): il Nucleo di valutazione come genericamente indicato all’art. 20 (ora soppresso); Nucleo di valutazione che evolverà nel c.d. Organismo Indipendente di Valutazione.

Solo che, in considerazione del modo come il controllo viene svolto (a consuntivo, in maniera cartolare, con verifica degli adempimenti di legge contrabbandati come “valutazione di risultati conseguiti”) da tale Organismo, difficilmente la Corte dei conti potrà avvalersi delle loro competenze nel caso in cui dovesse svolgere indagini mirate a valutare l’azione amministrativa posta in essere sulla base dei criteri fissati dalla” legge di riforma” (analisi e conseguente valutazione dei tempi, dei modi e dei costi dell’operato svolto) ([22]).

2.    La politica nazionale della riduzione dei costi organizzativi della P.A., a partire dalle spese del personale. Il ricorso alla funzione consultiva della Corte dei conti, dal 2003.

Il fatto che sia intervenuta la Corte Costituzionale a consolidare una di quelle poche scelte legislative che parlano chiaro sul modo come sarebbe necessario amministrare il nostro Paese, costituisce un sostanziale passo in avanti sulla strada del rafforzamento della politica nazionale che si è preoccupata di ridurre i costi organizzativi anche della c.d. “amministrazione indiretta”.

Tale linea politica risulta condivisa e accettata nell’ambito del sistema regionale; ma essa ha piena capacità di trovare spazi di inveramento nel sistema degli Enti Locali dove risultano più evidenti le distorsioni, gli allontanamenti, e i tradimenti dello spirito che ispirava quel movimento culturale che indicava nell’affidamento a terzi il perseguimento di una maggiore efficienza dell’azione amministrativa.

E ciò per diverse ragioni.

Da un lato, l’innalzamento del divieto di soccorso finanziario a principio contabile rientrante nella materia della legislazione finanziaria concorrente. E come tale non più derogabile (o solo procrastinabile) da chi dovrebbe assumere la decisione del caso.

Dall’altro, per il richiamo operato, in questa sentenza più che in ogni altra prima, dalla Corte Costituzionale alla giurisprudenza della Corte dei conti.

 Giurisprudenza che si è venuta formando nel tempo e attraverso l’attività consulenziale svolta dalle Sezioni regionali di tale Istituzione superiore di controllo. E ciò a conferma di una scelta coraggiosa fatta dal Legislatore nel 2003 ([23]), con la legge n. 131 in attuazione della riforma costituzionale del 2001.

Così che le resistenze poste in essere dalla Magistratura contabile a svolgere una funzione – quella consultiva nella materia della contabilità pubblica – ritenuta alquanto interferente con la funzione di controllo indipendente, possono ritenersi ormai superate.

Ugualmente sono da considerare superate le critiche, anche recenti, mosse a tale funzione fondate solo sulla base di un malinteso coinvolgimento del pensiero della Corte dei conti nei processi decisionali delle Amministrazioni ([24]). E che, invece, si dimostrano assai utili per fornire linee-guida ad Amministrazioni che sembrano voler tentennare su certe questioni e che, con tale ricorso, “si difendono” dalla ingerenza della politica sempre disponibile a non applicare la legge quando sono toccati interessi di natura “clientelare”.

Nella sentenza in analisi, forte e chiaro si presenta il richiamo alle deliberazioni, espresse sotto forma di pareri resi agli Enti Locali richiedenti, del “sistema periferico” della Corte dei conti: si passa da un richiamo generalizzato ([25]) a tale giurisprudenza a un richiamo sempre più puntuale ([26]).

È nella parte in diritto che la Corte Costituzionale concorda con l’Avvocatura generale dello Stato sul fatto che il trasferimento di risorse straordinarie ipotizzato dalla Regione a favore di una società che abbia registrato, per tre esercizi finanziari consecutivi, perdite di esercizio, costituisca violazione dell’art. 14, c. 5, TUSP.

Il Giudice delle leggi, quindi, si dispone a chiarire la portata del divieto di soccorso finanziario la cui ratio è stata illustrata dalle pronunce della Corte dei conti: «da un lato, quella di tutelare la concorrenza tra le società, e assieme di evitare situazioni di ingiustificato favore per i creditori della società partecipata; e, dall’altro, quella di limitare “l’ammissibilità di interventi a sostegno di organismi partecipati mediante erogazione o, comunque, dispendio di disponibilità finanziarie a fondo perduto, che appaiono privi quantomeno di una prospettiva di recupero dell’economicità e dell’efficienza della gestione dei soggetti beneficiari”» (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione 20 aprile 2018, n. 84/2018/PAR).

Inoltre, inequivocabile si rivela il punto di vista della Corte dei conti quando afferma che «l’art. 14, comma 5, TUSP, rifiuta, in particolare, la “logica del salvataggio” a tutti i costi degli Organismi a partecipazione pubblica in condizioni di precarietà economico-finanziaria di dissesto o perdita strutturale…» (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, deliberazione 14 giugno 2022, n. 67/2022/PAR).

La Corte Costituzionale si dimostra ben convinta che non sussistono, nel caso sottoposto al suo vaglio, spazi di tutela dell’interesse pubblico.

Spazi che avevano indotto la Corte dei conti a giustificare tali tipi di operazione. Essa li aveva potuti, infatti, ravvisare «solo con riferimento a poche situazioni concrete, in particolare nell’ipotesi della necessità di recuperare al patrimonio comunale beni societari indispensabili per la prosecuzione dell’erogazione di servizi pubblici fondamentali, o nel caso di pregresso rilascio di garanzia dell’Ente per l’adempimento delle obbligazioni della società.»; Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione 8 marzo 2017, n. 24/2017/PAR).

E la Corte così ha modo di concludere: «…il TUSP stabilisce, tra l’altro, principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica “trattandosi di norme che, in linea con le disposizioni in materia di riduzione del costo della pubblica amministrazione (cosiddetta spending review), pongono misure finalizzate alla previsione e al contenimento delle spese a società a controllo pubblico per il loro funzionamento” (sentenza n. 194 del 2020, punto 13.1 del Considerato in diritto). Ciò vale certamente anche per l’art. 14, comma 5, TUSP, che mira a porre stingenti limiti ai trasferimenti che le amministrazioni pubbliche possono effettuare a favore delle società partecipate».

Fondandosi la violazione sul richiamo fondamentale fatto, cioè al mancato rispetto di disposizione (interposta) rientrante nella materia del coordinamento della finanza pubblica, la Corte Costituzionale ha ritenuto che l’altro rilievo mosso – l’essere in contrasto con l’art. 97 Cost. – ne risultasse assorbito.

Sarebbe stato auspicabile che il Giudice delle leggi non sottovalutasse una simile violazione, anche perché poteva ben essere agganciata alle riflessioni esposte da essa stessa in un tempo della nostra storia istituzionale – l’anno 1995, conseguente alla scoperta del sistema corruttivo imperante proprio per mancanza di controlli sia interni che (indipendente) esterno della Corte dei conti – nella sentenza n. 29.

2.1  La legislazione di base posta in essere per contenere/ridurre i costi organizzativi (in particolare, la spesa del personale) nel contesto degli Enti Locali. Il ruolo assegnato alla Corte dei conti.

A seguito della “grande ubriacatura” che si è verificata nel dare esecuzione a quello che in maniera trionfalistica è stato qualificato “un percorso innovativo”, cioè la “decentralizzazione delle attività/delle funzioni” (1995-1998), e che si sarebbe tradotto in una “Amministrazione più snella e più efficiente” (Bassanini), è succeduta una diversa “visione” di ciò che avrebbe dovuto essere la P.A. (soprattutto locale) in Italia.

Lo si afferma con cognizione di causa in quanto tale decentralizzazione non è stata preceduta da alcuna indagine della Corte dei conti a i sensi dell’art. 3, c. 4 e 12, della legge n. 20/1994. Anche perché il Governo di allora ritenne sufficiente far approvare al Parlamento i provvedimenti legislativi con la clausola, purtroppo inconcludente, che non ci sarebbe stata alcuna variazione della spesa… (clausola ripetuta in maniera ossessiva, ma rivelatasi, poi, priva di attendibilità).

Ugualmente, la c.d. “riforma delle esternalizzazioni” è stata realizzata – come sottolineano da qualche tempo gli studiosi di P.A. di altri Paesi – “all’italiana”. Così come “all’italiana” si è venuta realizzando nel tempo la riforma connessa al principio della distinzione tra politica e amministrazione, o al principio dello “spoyl’s system”

Sul tema delle “esternalizzazioni” fondate sul ricorso a società/organismi esterni, il Parlamento ha posto una adeguata attenzione nel tempo.

Il richiamo al controllo esercitabile dalla Corte dei conti sulla “amministrazione indiretta” riferibile agli Enti Locali passa per la legge di stabilità per l’anno 2015 (art. 1, commi 611 e 612). Si tratta di una disciplina che viene richiamata nell’art. 20 del TUSP.

Infatti, è dal 2016 che presso la Corte dei conti, e in particolare presso le Sezioni regionali di controllo, vengono depositati i piani di razionalizzazione delle società partecipate dagli Enti Locali (controllo sulla amministrazione indiretta).

L’art. 20 del TUSP prevede (e conferma, in questo caso, la disciplina precedente) che, ferma la revisione straordinaria, “le amministrazioni pubbliche effettuano annualmente, con proprio provvedimento, un’analisi dell’assetto complessivo delle società in cui detengono partecipazioni, dirette o indirette, predisponendo, ove ricorrano i presupposti…, un piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione… Le amministrazioni che non detengono alcuna partecipazione lo comunicano alla sezione della Corte dei conti competente”.

2.2  Le modifiche intervenute nel tempo sul tema dei costi (dal costo del lavoro al costo degli apparati), tra cause oggettive e ritardi nelle analisi di competenza del sistema dei controlli interni.

Il richiamo che si è dovuto fare alla legislazione “sporadica” o anche “estemporanea” (così potrebbe qualificarsi quella elaborata dopo il 2008 per fare fronte alla necessaria riduzione dei costi organizzativi di tutta la P.A. italiana) avente quale unica finalità il riassetto degli apparati e la conoscenza dei costi del loro funzionamento (con il ricorso, purtroppo, ai c.d. “tagli lineari”), è risultato assai utile.

Anche perché le misure assumibili hanno avuto i connotati propri della coercizione, essendo collegata una responsabilità per danno all’Erario a ciascuno degli obblighi (divieti/restrizioni/vincoli) cui gli amministratori si sarebbe dovuto conformare.

In sostanza, a ben riflettere sulla politica nazionale adottata per contenere o ridurre i costi degli apparati amministrativi (dalla spesa del personale al costo delle consulenze…), si sono tenuti, da parte delle burocrazie delle diverse Istituzioni pubbliche – da quelle centrali a quelle periferiche –, comportamenti ritardanti o, in alcuni casi, omissivi nella attivazione dei diversi tipi di controllo interno.

E ciò a conferma del pensiero espresso dal William Niskanen già nella seconda metà degli anni 70 del secolo scorso.

Che tali ritardi e omissioni abbiano influenzato (depotenziandola) l’attività di controllo indipendente esterno della Corte dei conti che la legge n. 20/94, riguardo al “controllo sulla gestione”, fonda sul metodo della “comparazione” da effettuare tra interventi identici o tra apparati svolgenti la stessa funzione, non c’è alcun dubbio.

Occorre, quindi, riconoscere che nel nostro ordinamento sono convissute due politiche nazionali di controllo riguardanti i costi, per la maggior parte concentrati sulla analisi delle spesa del personale : quella “stabile”, introdotta dalla legge n. 20/1994 e, poi, completata nel 1999 dalla legge n. 286; quella che possiamo chiamare dell’ “emergenza”, attivata dal 2009, e che, nei fatti, ha distolto la Corte dei conti dal fornire il suo contributo tecnico se esso fosse stato ispirato dai parametri della economicità, della efficienza, della efficacia. Parametri tutti rientranti nel principio del buon andamento di cui all’art. 97 Cost..

Su questi parametri, sulla loro diffusione, sulla loro categorizzazione in relazione agli “oggetti” (piani e programmi, interventi misure) da controllare, poco ancora si è fatto.

E quando lo si è fatto – al fine di cercare quelle utilità logiche e poi fattuali che esse hanno offerto, invece, alle dirigenze di altre Nazioni ([27]) – ci si è dovuti arrendere di fronte a una persistente evidenza ([28]).

Cioè a un certo atteggiamento di incuria o sufficienza con cui – da parte delle dirigenze pubbliche ormai “ricercate tra gli esterni alla P.A.” –, si è riguardato il sistema dei “controlli interni” (quello di una loro visione “disgregata” e non certo unitaria). Sulla cui rilevanza, in un sistema amministrativo moderno, si è espressa l’Intosai nel 1992, cioè a distanza di 13 anni dal 1977, anno della “Dichiarazione di Lima” ([29]).

Purtroppo non ha funzionato – come sarebbe stato auspicabile – il “sistema dei controlli interni”, quel tipo di auto-controllo riconosciuto alle dirigenze e che, se svolto con la dovuta intelligenza, avrebbe dovuto sostenere la Magistratura della Corte dei conti nella elaborazione dei relativi programmi annuali (e cioè ad individuare le indagini da effettuare) rientranti nella propria naturale competenza ([30]).

Anche perché l’interlocutore interno della Corte dei conti – nel caso di controlli svolgenti “valutazione delle politiche pubbliche” (conseguimento degli obiettivi di legge) – avrebbero dovuto essere i Nuclei di valutazione/O.I.V., come, nel controllo di tipo finanziario-contabile, lo sono stati da sempre i Collegi dei revisori…

La “grande riforma” (reiterata, nell’anno 1993, per ben 5 volte a mezzo di una serie di decreti-legge, tutti di egual contenuto) non ha contribuito a migliorare (rectius, a modificare) in senso analitico-economico l’approccio che avrebbe dovuto acquisire il “controllo sulla gestione”, quello che – da controllo puramente finanziario-contabile a controllo di legittimità su atti – avrebbe dovuto guardare – essendo diverso per la finalità da conseguire  dai primi due – “ai tempi, ai modi e ai costi dell’azione amministrativa” ([31])

Se si avesse avuto il coraggio che, purtroppo, è mancato di fronte all’attacco concentrico mosso da tutte le Regioni, che a quel tempo riconoscevano soltanto il tipo di controllo previsto dalla Costituzione del 1948, cioè il controllo finanziario-contabile previsto dall’art. 125 Cost., di seguire le indicazioni della ormai nota sentenza n. 29/95 della Corte Costituzionale, probabilmente, all’appuntamento della riforma del 2012 ([32]), si sarebbe arrivati a possedere un accumulo di esperienze più completo, e più vasto.

Infatti, ad una analisi più attenta, i compiti assegnati alla Corte dei conti nel 2012 altro non erano che la ripetizione di attribuzioni già assegnate ma, poi, non gradite dalla stessa Magistratura. In fondo il decreto-legge n. 174 si può catalogare nel novero delle “leggi-risacca” (Bettini), leggi ripetitive di impegni istituzionali già assunti ma non portati ad esecuzione. E che i destinatari proclamano, ex post, essere “leggi innovative” …

E con molta probabilità le resistenze culturali interne – connesse a una visione che la cultura giuridica dei componenti del corpo magistratuale della Corte dei conti è riuscita a “condizionare” fortemente per lungo tempo – sarebbero state superate se si fosse riuscito a definire con un migliore approccio (veridicità, attendibilità) l’entità delle risorse finanziarie da allocare nei relativi capitoli di bilancio degli stati di previsione della spesa dei vari Ministeri (Amministrazione centrale).

Così che l’annoso problema della vera conoscenza dei (realistici) fabbisogni finanziari per coprire le spese del personale sia  la spesa di funzionamento degli apparati amministrativi ,risolto a livello centrale, avrebbe potuto avere un campo agevolato di indagine nel 2012, quando il Presidente della Corte dei conti d’allora ([33]) perorò – ottenendo il consenso di un’ampia platea di amministrativisti oltre che di costituzionalisti – l’estensione del controllo sul Rendiconto generale dello Stato, sotto forma di un giudizio di parifica, al Rendiconto regionale reso dalle Regioni a statuto ordinario, in cui la valutazione delle politiche pubbliche avrebbe avuto il suo spazio di analisi sotto la forma del controllo concomitante (cioè svolto” in corso di esercizio”…) della esecuzione data alle leggi e ai conseguenti programmi dalle diverse burocrazie (implementazione).

Solo a far data dall’esercizio finanziario 2013 (dopo l’entrata in vigore del richiamato d.l. n. 174), quindi, nel contesto ordinamentale nazionale, le Sezioni regionali di controllo assumono “naturaliter” – in ragione della loro vicinanza territoriale alle Istituzioni pubbliche che sono sottoposte al loro controllo (Ministeri, Regione, Enti Locali, Università degli studi, etc.) – un ruolo di controllori attenti alla evoluzione organizzativa che tali Istituzioni sono state chiamate a realizzare.

Nei riguardi delle Regioni a statuto ordinario la dichiarazione di parifica ([34]) del Rendiconto generale assume un rilievo ben maggiore ([35]) di quanto la stessa Magistratura contabile assegni alla Relazione ad esso allegata. Anche se in essa confluiscono le analisi già svolte, a livello periferico, dalle Commissioni regionali di controllo, istituite all’interno delle Delegazioni regionali, quando non ancora erano state denominate Sezioni regionali di controllo. E ciò avviene in occasione della approvazione del Regolamento per organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti il 14 giugno 2000 (delib.  n.14DEL/2000), con l’art. 2 intitolato “Le Sezioni regionali di controllo”.

Volendo cambiare prospettiva (come è giusto che sia), sono la struttura e i contenuti sempre più complessi di tale Relazione a dover formare oggetto di un approfondimento teorico da parte della dottrina costituzionalistica, quella che si occupa della valutazione delle politiche pubbliche, in particolare di competenza regionale e, di riflesso, di quelle di competenza locale che dal bilancio regionale acquisiscono risorse finanziarie (finanza derivata).

Non è stato mai sottolineato, in verità, il fatto che la scrittura, la elaborazione di siffatta Relazione dimostra il carattere della continuità nel tempo. Alla stessa stregua del controllo finanziario che si esercita sul rendiconto, anno dopo anno.

Parimenti, attraverso la sistematizzazione delle diverse politiche pubbliche si è pervenuta alla messa a punto di suggerimenti di natura correttiva che, se accolti, dovrebbero migliorare l’organizzazione di un Ente territoriale quale è la Regione.

Esercizio finanziario dopo esercizio finanziario è possibile verificare (ogni cinque anni, cioè per il tempo del mandato politico regionale) quali decisioni si siano assunte, da parte dei decisori politici, in ordine alla collocazione delle risorse finanziarie tra missioni e, al loro interno, tra i programmi ([36]) del bilancio approvato.

Relazione che, comunque, non contiene (come sarebbe auspicabile…), in sintesi, gli approfondimenti che solo il “controllo sulla gestione” (analisi dei tempi, dei modi, dei costi dell’azione amministrativa (nel cui termine va ricompreso il servizio pubblico), da riconnettere all’analisi dei costi/benefici conseguenti al controllo concomitante che si sia fatto di una legge, rectius del programma di esecuzione della stessa) può fornire per ogni politica pubblica, per un determinato settore di attività, per alcuni specifici interventi.

3.    Il sistema dell’“amministrazione indiretta” nel settore degli Enti Locali (1990-2000, ed oltre). Un necessario richiamo storico.

Quando nel 1990,con la legge n. 142 recante norme in materia di “Ordinamento delle autonomie locali “, si ritenne da parte dell’allora Ministro dell’interno pro-tempore, Antonio Gava, di procedere sulla via del rinnovamento istituzionale degli Enti Locali, si è avuto modo di registrare una unanimità di consensi sul tema che ci occupa da vicino… quello di voler fornire i decisori locali di tutta quella strumentazione di cui disponevano le Regioni, attraverso l’esercizio del rispettivo potere legislativo ([37]) e, ancor prima di queste ultime, lo Stato  sempre ricorrendo allo stesso tipo di potere di cui risultava essere dotato ([38]).

Infatti, con l’art. 22 di tale normativa si sono indicate varie soluzioni: dal ricorso alla “gestione in economia”, quando per le caratteristiche del servizio da rendere ,non si dimostri opportuno il ricorso a una istituzione o a una azienda; alla “gestione in concessione” a terzi; alla gestione a mezzo di “azienda speciale”, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica e sociale; alla gestione a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati.

Con il successivo art. 23, il Legislatore di allora ha inteso fissare i caratteri fondamentali che vanno ricercati sia nell’azienda speciale che nella istituzione. E, in questo caso, egli si dimostra un Legislatore lungimirante quando, anticipando in un certo qual senso i tempi, indica i parametri da rispettare quando si decida, da parte degli amministratori, di istituire organismi come l’“istituzione”, come l’azienda speciale dovendosi basare su “criteri di efficacia, efficienza ed economicità”, oltre ad assolvere all’obbligo del “pareggio di bilancio” che va perseguito «attraverso l’equilibrio dei costi (!) e dei ricavi, compresi i trasferimenti».

Rimangono a carico dell’Ente Locale una serie di incombenze che evidenziano lo stretto legame (rectius, la dipendenza) che tali organismi esterni hanno con l’Ente pubblico che li ha generati: conferire il capitale di dotazione; determinare le finalità e gli indirizzi; approvare gli atti fondamentali; esercitare la vigilanza; verificare i risultati della gestione; provvedere alla copertura degli eventuali costi sociali.

A questo punto, sembra proprio essenziale richiamare alla memoria degli studiosi della materia l’atteggiamento di una associazione rappresentativa degli interessi delle comunità locali (l’ANCI), e in particolare l’orientamento tenuto in ordine al tema che, da qualche tempo a questa parte, ci interessa come lo è l’“amministrazione indiretta” degli Enti Locali.

Infatti, sono le dichiarazioni (da riprendere per il loro tenore) del presidente dell’ANCI di allora a indurre i rappresentanti degli Enti Locali ad adottare un “comportamento anarchico” in tale settore, quasi che fosse venuto meno qualsiasi rapporto di collegamento istituzionale con il Ministero dell’Interno o con il Ministero del Tesoro.

Chiamato a fornire il suo contributo intellettuale e conoscitivo in sede parlamentare, nell’audizione resa il 24 luglio 1990, il sen. Riccardo Triglia ([39]) afferma «Siamo interessati ad evitare che la riforma subisca ritardi o deviazioni burocratiche nella sua applicazione; si tratta…, di valorizzare l’interpretazione delle norme in senso innovativo, …, vi è il tentativo di frenare, in nome della prudenza, l’attenzione della legge in moltissimi settori. Mi riferisco ai controlli, alla nomina dei revisori, alle nuove forme di contabilità su base economica, alle norme sui servizi…».

E ancora: «… Ribadisco che, come associazione, non abbiamo alcuna intenzione di assumere un ruolo centralistico di guida dei comuni nell’applicazione di questa legge. Mi sia consentita un’espressione mutuata da un’altra vicenda storica:fioriscano i cento fiori”, perché il dover dare un indirizzo univoco all’applicazione della legge ci rende profondamente distanti, per non dire ostili (!)».

Alla fine si finisce per dare una valutazione che, a dir poco, si può qualificare eversiva: «Si tratta di una legge non minuta ma di principi: comincia un lungo percorso nel quale interverranno leggi applicative e l’esperienza sul campo indicherà i benefici che l’inventiva, la fantasia e la volontà di progredire degli amministratori avranno prodotto» ([40]).

Il Ministero dell’Interno, d’altra parte, commentando l’art. 22, ebbe modo di rilevare nella sua relazione al testo presentato in Parlamento: «Le prime due forme di gestione non presentano particolari peculiarità rispetto al quadro legislativo previgente. Merita, invece, attenzione la prevista gestione “a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale… Con tale previsione il legislatore ha inteso colmare un vuoto normativo da tempo avvertito e segnalato dagli amministratori comunali che vedevano notevolmente ristretto il campo di intervento delle S.p.A. comunali dai pareri e dalle decisioni assunte in materia dal giudice amministrativo in sede di interpretazione della precedente normativa.».

Fino ad affermare – sempre il Ministero dell’Interno – che la norma in questione «…potrà consentire a comuni e province di assicurare i servizi di rispettiva competenza ricorrendo ad un istituto di diritto privato con i conseguenti immaginabili vantaggi.» ([41])

È allora che si registra, in assenza di un quadro normativo predefinito nei suoi elementi essenziali, uno sviluppo abnorme, incontrollato di società a partecipazione pubblica.

Fenomeno che risulterà ridisciplinato nel 2000, cioè a distanza di poco più di 10 anni dalla legge n. 142, con gli articoli dal 112 al 116 del d.lgs. n. 267 (Testo Unico delle disposizioni riguardanti l’ordinamento degli Enti Locali), nel contesto di un Titolo – il V – denominato unitariamente “Servizi e interventi pubblici locali”.

Articoli che hanno registrato, comunque, una certa quale vigenza nel nostro ordinamento: l’art. 112 (Servizi pubblici locali), infatti, è stato abrogato con l’art. 37 del d.lgs. n. 201 del 2022; l’art. 113 (Gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici di rilevanza economica) dal richiamato articolo 37 nel 2022; mentre dell’art. 113-bis (Gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica) è stata dichiarata l’incostituzionalità con la sentenza n. 27 del 2004.

Mentre si nota una certa quale attenzione nel ridisciplinare con l’art. 114 (Aziende speciali ed istituzioni) tali organismi, ambedue risultano obbligati a conformare la loro gestione ai principi contabili generali e applicati allegati al d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, e successive modificazioni e integrazioni, venendosi a chiudere – se così si può dire – quel cerchio ideale voluto dal principio della armonizzazione contabile.

Se, poi, si richiama alla memoria un fatto, l’avere fornito adeguate direttive da parte del “sistema centrale” o “governativo” (anche se da parte del Dipartimento della Funzione Pubblica) nella materia solo nel 2004, l’affermazione fatta secondo cui si è vissuto un periodo di incertezza, da parte di tale settore, essa risulta essere ampiamente validata.

Delle cause di questo ritardo nell’assumere posizioni istituzionali, da potersi considerare in linea con il diritto dell’Unione europea, occorre naturalmente far cenno. E non si possono considerare queste reticenze o remore nell’assumere posizioni chiare prive di fondamento.

Anche perché tale diritto, in definitiva, ha oscillato per molto tempo su posizioni che si sono rivelate, comunque, attente a tener in debito conto le specificità degli ordinamenti nazionali. Fino a che non è prevalso su tutti il dovere di rispettare il principio di libera concorrenza anche a carico delle Istituzioni pubbliche.

Ciò si è venuto realizzando dopo una attenta verifica del tipo di mercato o di settore in cui ogni “organismo partecipato” veniva chiamato ad operare.

Così che il riadeguamento a tale nuova “visione”, da parte degli Enti Locali, nel nostro Paese, è avvenuta con tempi assai ritardati (e a scapito di perdite finanziarie rilevanti che ne hanno indebolito la struttura e le funzioni), tra polemiche inutili e interpretazioni assunte dalla dottrina in contrasto con il principio richiamato.

4.    Il controllo sul sistema organizzativo dell’“amministrazione indiretta” degli Enti Locali esercitato dalla Corte dei conti

L’approccio, da parte della Corte dei conti, al sistema organizzativo degli organismi disciplinati dagli artt. 112 -116 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, sembra risultare ancorato ancora a una visione esclusivamente di natura finanziario-contabile ([42]).

Ne costituisce prova la denominazione stessa data ai diversi articoli dello stesso T.U. in cui risulta disciplinata la funzione di controllo della Corte dei conti: art. 148 (Controllo della Corte dei conti); art. 148-bis (Rafforzamento del controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli enti locali); articolo, quest’ultimo, introdotto nel nostro ordinamento solo nel 2012 con l’art. 3, c. 1, della legge n. 213 di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 174. Controllo che risulta qualificato, nei riguardi delle società partecipate non quotate, dall’art. 147-quater, introdotto anch’esso dalla richiamata legge n. 213 del 2012. Mentre si sottolinea come “il controllo sugli equilibri finanziari implica anche la valutazione degli effetti che si determinano per il bilancio finanziario dell’ente in relazione all’andamento economico-finanziario degli organismi gestionali esterni” (art. 147-quinquies, introdotto nel 2012).

In poche parole, si dimostra attenzione a verificare il grado di dipendenza economica dell’organismo “esterno” dal bilancio dell’Ente che ne abbia la partecipazione, e di valutare, quindi, la sua autonomia economica.

Tale affermazione riposa sulla lettura in presa diretta del complesso dei quesiti che, in apposita Sezione (Organismi partecipati), la Sezione delle Autonomie, nel corso degli anni, ha ritenuto di dover elaborare in occasione del questionario di controllo (denominate “Linee-guida per la Relazione dell’Organo di revisione economico-finanziaria”) approvato ai sensi dell’art. 1, comma 166, della legge 23 dicembre 2005, n. 266.

Questionario che ha impegnato l’Organo di revisione economico-finanziaria di ogni Ente Locale a lanciare finalmente, dopo una lunga assenza/latitanza riscontrata dalla stessa Corte dei conti, uno sguardo sulla tipologia di controllo (sub forma di una “costante vigilanza”) esercitato sul sistema di “amministrazione indiretta” via via creato dall’Ente Locale per fare fronte ai bisogni della comunità locale (servizi pubblici).

Una nuova attenzione è stata posta, come si è già avuto di ricordare – in occasione della riscrittura della normativa in esecuzione della legge-delega 3 agosto1999, n. 265 – nei confronti della situazione economica-finanziaria propria degli organismi che vanno sotto la denominazione omnicomprensiva di “amministrazione indiretta” quando sono venuti alla ribalta alla fine degli anni 90 vicende di dissesti che hanno interessato Comuni di grande dimensioni ([43]), a riprova del fatto che non basta proclamare i parametri della economicità, o della efficienza perché ne sia garantita la sopravvivenza.

Nei riguardi dell’“amministrazione indiretta”, l’attenzione della Corte dei conti risulta ormai scontata.

A parte i richiami operati dal Legislatore ad avere una “visione unitaria” della gestione finanziaria degli Enti locali, la Corte dei conti – a mezzo di quello strumento di natura conoscitiva costituito dalle c.d. “Linee-guida” rivolte all’Organo di revisione economico-finanziaria – ha fornito un contributo scientifico e culturale di grande rilievo.

Tanto da ritenere utile il richiamo che la Sezione delle Autonomie di tale settore fa nella Relazione di accompagno a tale questionario ([44]).

Infatti, risulta chiarita la finalità dei quesiti ai quali il Collegio dei revisori deve fornire una risposta adeguata (cosa che si è realizzata, a differenza di quanto si possa credere, nel tempo e con grande fatica); risultano evidenziate le innovazioni apportate dalla legislazione di settore nel frattempo sopraggiunta; risultano, ugualmente, indicate le nuove frontiere che si intendono raggiungere.

A tal riguardo, il commento in ordine alle scelte fatte (quesiti elaborati), si snoda su alcuni assi fondamentali.

Infatti, si preannuncia che «la sezione dedicata agli Organismi partecipati (la 7, n.d.a.) registra una ristrutturazione complessiva, adottando, a fini di semplificazione, un modello “a cascata”: con il primo quesito, di ordine generale, si chiede infatti se l’ente abbia o meno partecipazioni, così da consentire al revisore, in caso di risposta negativa, di procedere direttamente alla sezione successiva del questionario.

In caso di risposta positiva, il revisore è chiamato a rispondere circa l’avvenuta approvazione, da parte delle società partecipate, del bilancio relativo all’ultimo esercizio nonché circa eventuali misure di razionalizzazione/revisione   delle partecipazioni da parte dell’ente di riferimento in grado di impattare sul proprio bilancio di previsione…».

La Sezione delle Autonomie, poi, si sofferma sul fatto che siano richieste «informazioni di dettaglio sulla presenza di società in perdita». Al riguardo viene richiesto all’organo di controllo interno di «precisare se le perdite siano dovute agli effetti della pandemia da Covid-19 e se la società si è avvalsa della facoltà di posticiparne la copertura secondo quanto consentito dall’art. 6, co. 2, d.l. 23/2020».

«Segue una serie di domande volte a monitorare il rispetto dei vincoli in materia di soccorso finanziario in favore delle società partecipate di cui all’art.14, c. 5, d.lgs.19 agosto 2016, n. 175, nonché dell’obbligo di accantonamento secondo quanto previsto dall’art. 21, c.1, del medesimo d.lgs. …».

Ma l’acquisizione di informazioni utili a svolgere il controllo in questione non si ferma qui.

Si estende, infatti, ad acquisire conoscenza di altri fenomeni gestori che costituiscono indice di anomala gestione: «Altro aspetto di interesse riguarda l’eventuale rilascio di garanzie in favore degli organismi partecipati nonché l’adozione di un provvedimento motivato di fissazione degli obiettivi specifici impartiti alle controllate sul complesso delle spese di funzionamento, ivi incluse quelle per il personale (art. 19, d.lgs. n. 175/2016)».

Fino a lasciare al revisore ampi margini di integrazione. Un modo intelligente questo per lasciare al primo livello di controllo interno un margine di analisi che ad esso va garantito.


[1]      In tal senso, v. Al Gore, Vice Presidente degli USA, con il suo documento intitolato “Reiventing Government” (1993). Il suo obiettivo era far sì che il Governo Federale “funzionasse meglio, costasse meno e ottenesse risultati cui gli americani tengono”.

[2]      Tale modello autorizza l’Ente pubblico ad assegnare un certo importo di risorse finanziarie (pre-valutazione) all’organismo incaricato/delegato a svolgere servizi essenziali, dovendo la relativa dirigenza mantenersi entro quell’importo definito.4

[3]      Economicità che risulta essere stata declinata dai nuovi “datori di lavoro” come riduzione progressiva del costo del lavoro, finendo i lavoratori per conseguire una retribuzione sempre più bassa, a scapito della stessa qualità del servizio reso agli utenti. Retribuzione ormai concordata con l’apporto di una serie di “sindacati gialli” privi del requisito della rappresentatività. Tanto che l’INPS, nella Relazione annuale 2021, ha segnalato l’aumento della presenza di “poveri da lavoro”, identificati come coloro che hanno un lavoro che nell’anno ha consentito loro di guadagnare meno del 60% del reddito mediano, passando dal 26% del 1990 al 32,4% del 2017.

[4]      Il costo-standard va utilizzato per 1. accrescere e misurare il livello di efficienza di qualsiasi azione amministrativa; 2. controllare e ridurre i costi; 3. semplificare le procedure per la determinazione; 4. effettuare la valutazione delle scorte (ad es. di medicinali, in un ospedale); 6. determinare i prezzi di vendita (ad es., dei biglietti di trasporto pubblico o di eventi culturali).

[5]      Si fa un generico riferimento a una avvertita carenza di interventi/indagini (non attivate) che si basano sulla raccolta di dati/informazioni che la Corte dei conti avrebbe ben potuto richiedere alla stessa Amministrazione controllata in applicazione dell’art. 65(Controllo del costo del lavoro) del d.lgs. n. 29/1993 come, poi, confermato dall’art. 3, c. 4, della legge n. 20/94. Un esempio di indagine mirata ad accertare i costi degli apparati svolgenti identica funzione – quella di collocamento della manodopera (Centri per l’impiego), fondata sulla comparazione degli stessi, come prescrive la legge n. 20/94-, può essere costituito dalla delib. 28/2019/VSGO approvata in data 16 aprile 2019 dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata dal titolo “L’assistenza pubblica all’inserimento dei richiedenti un impiego nella vita attiva. Analisi dei costi dei Centri per l’impiego (2015-2017, con proiezioni al 2020 nella Regione Basilicata”, ed. Corte dei conti, 2019 (pagg. 380).

[6]      La società SOSE (Soluzioni per il Sistema Economico S.p.A., partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e da Banca d’Italia) è risultata affidataria della attività di rilevazione dei costi-standard delle funzioni svolte dagli Enti Locali, in www.fondazioneisfel.it.

[7]      L’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio (art. 9, DPCM 28.12.2011) si è avuta a far data dal 1° gennaio 2015, a seguito della entrata in vigore del d.lgs. n. 118 del 2011. Quindi bisogna riconoscere come solo da tale data è stato possibile avviare le prime rilevazioni di dati/informazioni circa le spese effettuate per “missioni” e “programmi”. Missioni che, nel bilancio armonizzato di qualsiasi Ente Locale d’Italia, sono 20 (cui se ne possono aggiungere altre 3: Missione 50; Missione 60; Missione 99 – Servizi per conto terzi).

[8]      V. Emidio Valentini, Marx Keynes Ntg. Gli algoritmi, le leggi, le regole dello sviluppo economico, 2015, ilmiolibroselfpublishing; Idem, teP di Marx Ntg, prezzi e salari nel mondo globalizzato del XXI secolo, 2018, ilmiolibroselfpublishing; teP di Marx Keynes Ntg, 2018, ilmiolibroselfpublishing.

[9]      Ai sensi dell’art. 116, c. 3, della Costituzione – come modificato dall’art .2, c. 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – alle regioni a statuto ordinario possono essere attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, limitatamente a determinate materie e seguendo uno specifico procedimento.

[10]     Infatti, il “gruppo amministrazione pubblica territoriale” … è formato da una aggregazione di imprese eterogenee (società di capitali, fondazioni, consorzi, enti e organismi strumentali, etc.), nate per soddisfare bisogni o interessi collettivi (Sez. Autonomie, delib. n. 29/2019/FRG, pag.36-53). Ma la loro “accountability” non può essere misurata e valutata se non insieme con quella dell’ente pubblico da cui sono nati (costituzione) o dal quale risultano partecipati (in qualità di socio).

[11]     V. T.M. Moe, La nuova economia dell’organizzazione, in G. Brosio (a cura di), La teoria economica dell’organizzazione (in originale “The New Economics Organization” in American Journal of Political Science, vol. 28. n. 4, november 1984).

[12]     Risulta priva, comunque, di significatività il richiamo a manifestazioni di contrarietà alle esternalizzazioni tenute dai politici nell’analisi fatta dalla società internazionale di revisione dei conti, Accenture (come richiamata dalla “Guida” del Dipartimento della Funzione Pubblica). Con ogni probabilità, esse sarebbero state espresse dalla classe politica americana.

[13]     Tale impegno istituzionale è iniziato nel 2010: esso è proseguito, anno dopo anno – fino al 2022.

[14]     Per la prima volta, con la legge n. 122 del 2010, di conversione del decreto-legge n.78 (art.6, comma 19).

[15]          In tal senso, ex multis, v. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, sent. n. 26806 del 27 ottobre 2009.

[16]     Max Weber ha sottolineato come si sia venuto progressivamente attuando una burocratizzazione sempre più invasiva, che tende a imprigionare le persone in una rete di regole minuziose e a sottometterle alla potenza anonima, irresponsabile e ogni giorno più necessaria degli apparati burocratici, i veri detentori del potere nelle società moderne (Voce, Treccani).

[17]     La politica come professione (Politik als beruf) è un saggio del sociologo tedesco Max Weber pubblicato nel luglio del 1919, nato dal testo di una conferenza tenuta il 28 gennaio del 1919.

[18]     Classe dirigente che, per la sua cultura e per le conoscenze tecniche possedute, è in grado di implementare la legge, fornendola dei requisiti necessari per la sua migliore esecuzione possibile.

[19]     Il controllo deve, secondo la “Dichiarazione di Lima”, risultare stringente in due settori dell’economia nazionale, nel settore dei lavori pubblici e nel settore dell’informatica. Settori indicati come capaci di generare sprechi assai alti di denaro pubblico.

[20]     Il sistema del “controllo di gestione” può essere definito come una sorta di “navigatore satellitare” che viene applicato ai processi decisionali che avvengono all’interno di un progetto per 1. comprendere se gli obiettivi siano coerenti con le risorse disponibile; 2. confrontare modi diversi di agire che consentano di conseguire gli obiettivi; 3. misurare l’operato per capire se le azioni che si pongono in essere all’interno di un progetto siano o meno funzionali al raggiungimento degli obiettivi. In sostanza, il “controllo di gestione” è il processo con il quale la direzione di una struttura pubblica si assicura che l’organizzazione operi in maniera efficiente ed efficace.

[21]     In tal senso si esprime William Niskanen nei suoi saggi (tra gli altri, Bureaucracy and Representative Governement, del 1971; Bureucracy: servant or master?, del 1973; Bureaucrats an politicians, del 1975) sullo studio dei comportamenti delle burocrazie.

Egli giunge a queste conclusioni: 1. I burocrati cercano di massimizzare i budget (invece che i profitti); 2. L’ente pubblico è una organizzazione che non ha finalità di profitto e le cui entrate non provengono da fonti diverse dalla vendita del proprio prodotto sul mercato; 3. nel trattare con il Legislatore (classe politica), i burocrati hanno un effettivo monopolio dell’informazione riguardo ai costi reali dell’offerta.

[22]     Osserva, a tal riguardo, il prof. Renato Ruffini nel suo saggio “Performance e buona amministrazione. Il ruolo dei Nuclei di valutazione” come “L’ambiguità e la confusione normativa è anche maggiore se analizziamo le modalità applicative e il funzionamento degli OIV/nuclei di valutazione nelle regioni e negli enti locali e in generale in tutti gli enti la cui disciplina non è di diretta applicazione. Le modalità di adeguamento degli enti locali e delle regioni alla norma nazionale hanno di fatto creato una significativa incertezza sia normativa che tecnica…”, in “Il controllo indipendente esterno. Diversi oggetti, diversi sistemi di valutazione” (a cura di R. Scalia), Bonanno ed., Acireale, 2022, pagg. 217-227.

[23]     Si prevede, infatti, all’art. 7. c.8, il ricorso alla Corte dei conti per acquisire specifici pareri in materia di contabilità pubblica. Infatti, si afferma ormai che “la funzione consultiva appare finalizzata a fornire agli enti territoriali la possibilità di rivolgersi alla Corte dei conti, quale organo professionalmente qualificato e neutrale, per acquisire elementi interpretativi generali, tesi a orientare ai parametri della legittimità e del buon andamento le concrete scelte amministrative…”.

[24]     Si veda, tra gli altri, Massimo Urso, “Lo studio della nuova contabilità pubblica nel contesto di una P.A. chiamata a perseguire gli equilibri del bilancio pubblico e a migliorare l’azione amministrativa” in “La funzione di controllo della Corte dei conti. L’esecuzione del PNRR in Italia nel contesto di una economia di guerra” (a cura di A. Barone e R. Scalia), Cacucci ed., Bari ,2023, pagg.151-178.

[25]     “Rammenta innanzi tutto l’Avvocatura generale dello Stato che la ratio del principio di cui all’art.14, comma 5, TUSP, è stata individuata dai giudici contabili nella necessità di abbandonare la logica del «salvataggio a tutti i costi» di società che versano in situazioni di dissesto…”, sent. n. 110/2023 Corte costituzionale, nel “Ritenuto in fatto”.

[26]     In particolare, alle seguenti deliberazioni: alla delib. n.279/2015/PAR. della Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo (Presidente Maria Giovanna Giordano; rel. Angelo Maria Quaglini; alla delib. n. 66/2018/PAR, della Sezione regionale di controllo per il Lazio (Presidente Carlo Chiappinelli; rel. Maria Luisa Romano; alla delib. n. 1/2019/PAR., della Sezione regionale di controllo per il Lazio (Presidente e rel. Carlo Chiappinelli); alla delib. n. 47/2019/PAR, della Sezione regionale di controllo per la Puglia (Presidente Maurizio Stanco; rel. Giovanni Natali).

[27]     Tra le Nazioni europee, ricordiamo la Repubblica Federale di Germania. Infatti, nella Rivista della Corte dei conti, nel 1984, vengono pubblicati due saggi che narrano in che modo si faceva già allora analisi dei costi degli apparati amministrativi tedeschi, essendosi tradotti i principi di Lima in azioni operative.

V. Walter Wilhelm Hedderich, “Problemi del controllo di economicità, di efficienza e di efficacia. Metodi per la loro soluzione”, e Karl Rosenthal, “Le analisi di organizzazione quale strumento del controllo di efficienza”, riportati in dossier di ricerca n. 75.5.3, dal titolo “Riflessioni sul controllo indipendente esterno della Corte dei conti in esecuzione del PNRR. Materiali per il Convegno di Ragusa (30 settembre – 1° ottobre 2022)”, pagg. 221-258, ed. Istituto Max Weber, Acireale-Roma, giugno 2022.

[28]     L’evidenza è data dall’essersi dovuti occupare del sistema dei controlli interni, nel 1999, dopo 5 anni dalla intervenuta disciplina del “controllo esterno” della Corte dei conti, chiamata a dare una sua valutazione sul grado funzionalità che i controlli interni avrebbero dovuto, via via, raggiungere. E che era impossibile raggiungere avendo lasciato la legge un margine troppo ampio di adattamento agli Enti Locali, tale da eliminare/compromettere l’esercizio del confronto tra Enti simili cui la Corte dei conti si sarebbe dovuta ispirare nel fare il nuovo tipo di controllo.

[29]     È, infatti, del 1992 il documento internazionale prodotto dall’INTOSAI sul ruolo del sistema dei controlli interni relativi alla gestione sia finanziaria che amministrativa. V. Giuseppe Cerasoli-Fabrizio Mocavini, “Il public internal financial control”, Roma, ottobre 2008, ed. Ragioneria Generale dello Stato, pagg. 80.

[30]     L’art. 3, c. 4, prevede che “La Corte definisce annualmente i programmi e i criteri di riferimento del controllo …”sulla gestione.

[31]     Già la Corte Costituzionale ne aveva tratteggiato la struttura e le finalità nella sent. n. 29/95(diritto 11.1): «L’esito del controllo sulla gestione,come precisa l’art.3,co.6,consta di relazioni ,almeno annuali che vengono inviate tanto agli organi che assumono le decisioni politiche concernenti gli obiettivi e le prescrizioni da imporre all’amministrazione ,quanto alle stesse amministrazioni stesse ,al fine di agevolare l’adozione di soluzioni legislative e amministrative dirette al raggiungimento della economicità e dell’efficienza nell’azione degli apparati pubblici ,nonché l’efficacia nei risultati..».

[32]     Si richiama il d.l. n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 213 del 2012.

[33]     Era tale il dr. Luigi Giampaolino, già presidente dell’Autorità di controllo sugli appalti pubblici e l’acquisizione di beni e servizi, poi trasformata in ANAC.

[34]     Infatti, essa ha dato spazio all’attivazione di ricorsi alla Corte Costituzionale per sindacare leggi regionali prive di copertura finanziaria o di copertura finanziaria insufficiente.

[35]     La relazione di fine mandato regionale, che avrebbe dovuto contribuire ad accelerare il processo di trasparenza dei processi decisionali politici e a migliorare il rapporto tra classe politica e amministrati, è stata abolita dal Legislatore in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 174 del 2012. Così che si ha, per fini di memoria storica, una esperienza assai limitata sul come la classe politica dirigente si sia atteggiata nei riguardi di una incombenza normativa che l’ha posta sul piano di coloro devono dimostrare di avere raggiunto risultati concreti ed obiettivi condivisi.

[36]     Nella nuova struttura data al bilancio delle Regioni, sia statuto speciale che a statuto ordinario, a seguito della entrata in vigore della legge n. 196/2009, così come elaborato dal d.lgs. n. 118/2011 (armonizzazione dei bilanci pubblici) si individuano 19 Missioni.

[37]     Per fare qualche esempio, la legge (rinforzata) della Regione Lazio che approva il relativo Statuto (Legge 11 novembre 2004, n. 1), prevede all’art. 56 (Società ed altri enti privati a partecipazione regionale) che la Regione possa partecipare ovvero promuovere la costituzione di società di capitali, di associazioni, di fondazioni e di altri enti privati  che operino nelle materie di competenza regionale in conformità alle disposizioni del codice civile e nel rispetto delle norme generali stabilite da apposita legge regionale.

[38]     Anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze è tenuto alla razionalizzazione periodica delle partecipazioni detenute ai sensi dell’art. 22, c. 1, lett. 1-bis, del d.lgs. n. 33/2013.

[39]     Riportato in “Regione, Provincia, Comune. Alla luce della legge di riforma delle Autonomie Locali” (a cura di R. Scalia-P. Crea), con presentazione di Franco Fausti, ed. CieRre, Roma, 1991, pag. 11.

[40]     Riportato in volume cit. “Regione, Provincia, Comune etc.”, ed. CieRre, Roma, 1991, pag. 247.

[41]     A tal riguardo, Renzo Santini, Presidente della Cispel, richiamava l’attenzione sul fatto che il testo approvato ha un valore programmatico. E ciò in considerazione del fatto che l’art. 22, c. 2, contiene un esplicito rinvio a una legge che dovrà definire i servizi riservati in via esclusiva agli enti locali… Legge ancora all’esame della I^ Commissione del Senato….(Audizione del 17.7.1990).

[42]     Solo una assunzione di responsabilità istituzionale (controllo sulla gestione che va necessariamente auto-deciso nei rispettivi programmi di controllo annuali), da parte della Magistratura del buon andamento, potrebbe riguardare due organismi svolgenti identico servizio pubblico intendendosi gli stessi come due organizzazioni valutabili sotto il profilo della loro economicità sia organizzativa che funzionale.

[43]     Ad esempio, il Comune di Roma, al fine di definire i rapporti tra tale ente e il “Gruppo Roma” (complesso degli organismi partecipati a vario titolo), si è preoccupato, nel 2007, con l’apporto di eminenti economisti e di giuristi d’impresa, di elaborare una Guida completa dal titolo “Guida alla gestione del Gruppo Roma”.

[44]     Si richiamano, qui di seguito, le più recenti indicazioni fornite con la delib. n. 7, approvata dalla Sezione delle Autonomie in data 4 maggio 2023. L’analisi di esse, se effettuate nel tempo, costituiscono preziosi elementi di riflessione che possono indurre la dottrina ad avere un atteggiamento più aderente alla realtà cangiante di questo sistema.

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