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L’intervento nel processo amministrativo, alla luce della più recente giurisprudenza

di Antonino Ripepi[1]

SOMMARIO: 1. L’intervento nel processo amministrativo: lineamenti generali. 2. L’intervento volontario. 2.1. Esame di Cons. Stato, Ad. Plen., 29 ottobre 2024, n. 15. 3. Conclusioni.

1. L’intervento nel processo amministrativo: lineamenti generali.

In generale, l’intervento è l’ingresso di un terzo in un procedimento già pendente[2].

Si distingue, tradizionalmente, tra intervento principale, che è quello proprio del soggetto che interviene in un processo per valere in confronto di tutte le parti un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo (ad infrigendum iura utriusque litigatoris), intervento litisconsortile, consentito a chi interviene per far valere in confronto di una sola delle parti un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo, e intervento adesivo, proprio del terzo che, avendo un proprio interesse, interviene per sostenere le ragioni di una delle parti[3].

L’istituto dell’intervento, dunque, in tutte le partizioni concettuali appena accennate, evoca la figura del terzo, la cui tutela nel processo amministrativo presenta numerosi profili problematici a causa, in particolare, della difficoltà di vedere effettivamente rappresentati nel processo tutti i soggetti potenzialmente interessati dalla sentenza e dalla conseguente necessità di individuare adeguati strumenti di tutela dei rispettivi interessi[4].

Da un diverso angolo visuale, recentemente valorizzato anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’intervento sconta la problematicità insita nella ricostruzione dogmatica del giudicato amministrativo e dei confini di quest’ultimo, in un contesto in cui «si coglie la necessità del superamento delle vecchie strutture ma si fatica a delineare quelle nuove, adeguate ai bisogni del presente»[5].

Ancora, l’istituto dell’intervento si ricollega a molteplici questioni centrali della giustizia amministrativa, quali la definizione di controinteressato, l’individuazione dei limiti della legittimazione a ricorrere, la determinazione delle azioni esperibili, l’adeguatezza degli strumenti di tutela approntati dall’ordinamento a difesa dei soggetti che partecipano al giudizio. Consentendo l’ingresso nel processo a soggetti che non ne sono parti sin dal suo avvio, l’intervento consente di allargare l’orizzonte soggettivo e oggettivo del processo, ampliando la cognizione del giudice[6].

Infatti, tale istituto si atteggia in modo del tutto peculiare nel giudizio amministrativo (rispetto al processo civile) proprio a causa della particolare struttura di quest’ultimo[7], sicché occorre esaminarlo, in ottica diacronica, alla luce di coordinate differenti da quelle valevoli per il processo civile.

La disciplina dell’intervento nel processo amministrativo, come noto, è mutata nel corso del tempo.

Il R.D. 17 agosto 1907, n. 642, analogamente all’art. 201 del codice di procedura vigente all’epoca vigente e con disciplina non modificata dal R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, stabiliva che «chi ha interesse nella contestazione può intervenirvi» (art. 37), «nello stato in cui si trova la contestazione» (art. 40). L’art. 22, comma 2, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, ha ripreso la formulazione del R.D. n. 642/1907.

Tali disposizioni hanno disciplinato gli interventi volontari[8] per definirne le forme della loro proposizione, senza specificarne le posizioni legittimanti ed i contenuti della relativa domanda.

Il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha dettato una disciplina più dettagliata degli interventi, la quale riflette l’attuale configurazione del processo amministrativo, non più basato soltanto sul c.d. modello impugnatorio, ma tiene conto delle differenziate esigenze di tutela, consentendo di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta piena alla domanda di giustizia (e di acquisizione o di conservazione del ‘bene della vita’ inciso o regolato dall’esercizio del potere pubblico).

La collocazione sistematica dell’intervento ‒ nel Titolo III, intitolato «Azioni e domande», all’interno del Capo I, rubricato «Contraddittorio e intervento» ‒ evidenzia la sua derivazione dal principio costituzionale del «contraddittorio tra le parti», quale componente del «giusto processo regolato dalla legge» (art. 111, comma 2, Cost., richiamato dall’art. 2 del c.p.a.).

L’istituto, segnatamente, è oggi disciplinato agli artt. 28, 50 e 51 c.p.a. La prima disposizione citata individua le diverse forme di intervento; al comma 1 quello degli eventuali controinteressati non intimati, individuati facendo riferimento alla propagazione, nei loro confronti, degli effetti sostanziali della sentenza; il comma 2 fa riferimento, genericamente, alla sussistenza di un “interesse” alla partecipazione al giudizio e viene ricondotto, nella prassi applicativa, alle figure tradizionali dell’intervento ad adiuvandum e ad opponendum; il comma 3, infine, introduce nel processo amministrativo l’intervento per ordine del giudice o iussu iudicis, di cui all’art. 107 c.p.c.

Appare opportuno, per chiarezza espositiva, prendere le mosse dall’intervento volontario.

2. L’intervento volontario.

L’intervento volontario, di cui al comma 2 dell’art. 28 c.p.a., è concepito dalla giurisprudenza in senso restrittivo rispetto al tenore letterale della disposizione[9].

Testualmente, infatti, l’art. 28, comma 2, c.p.a. subordina l’ammissibilità dell’intervento dei portatori di un interesse (diversi dai controinteressati pretermessi) alla sola circostanza che non sia maturata una decadenza a carico dell’interveniente. Astrattamente, dunque, la norma avrebbe potuto consentire anche forme di intervento prima categoricamente escluse, quale l’intervento in via principale[10] e l’intervento litisconsortile, pacificamente ammesse nel processo civile.

La giurisprudenza, tuttavia, è rimasta ferma (e lo è tuttora, come si dirà a breve) sulle posizioni consolidatesi anteriormente al nuovo codice del processo amministrativo, nel segno di una rigida alternatività, sconosciuta al diritto processuale civile, tra legittimazione a ricorrere e legittimazione ad intervenire.

In particolare, si è consolidato un orientamento secondo cui l’intervento implica l’ingresso nel processo amministrativo di una parte considerata accessoria o eventuale: interventore, in altri termini, veniva considerato colui che è portatore di un interesse alla conservazione o alla caducazione dell’atto impugnato, a seconda del fatto che l’accoglimento della domanda di annullamento potesse riflettersi in termini pregiudizievoli o vantaggiosi sulla sua posizione giuridica a causa di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza con l’oggetto del giudizio delineato dal ricorrente[11]

Di conseguenza, si riteneva che nel processo amministrativo di impugnazione l’atto di intervento non fosse mezzo idoneo a far valere una propria autonoma pretesa di annullamento, innanzitutto per evitare l’elusione di termini perentori, e poi perché la domanda di annullamento potrebbe essere avanzata solo nella forma del ricorso.

Tuttavia, per completezza espositiva, occorre dare atto di come parte della giurisprudenza abbia, tuttavia, temperato la posizione di chiusura riguardante (esclusivamente) l’intervento litisconsortile, ammettendolo tramite la sua conversione in ricorso principale (in applicazione del generale principio sancito dall’art. 1424 c.c., ritenuto applicabile anche nel processo), alla triplice condizione che non fossero scaduti i termini di decadenza, che fosse ravvisabile nell’interventore la volontà di agire quale ricorrente e che l’atto di intervento possedesse i requisiti di sostanza e di forma del ricorso, compresi quelli di natura fiscale[12].

Ma, in disparte tale apertura, l’orientamento maggioritario (oggi autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria, come si dirà) afferma che l’intervento ex art. 28, comma 2, c.p.a., può essere spiegato esclusivamente da coloro che abbiano un interesse solo mediato e riflesso all’annullamento (intervento ad adiuvandum) o alla conservazione (intervento ad opponendum) dell’atto impugnato. Ove il loro interesse fosse diretto, gli stessi, nel primo caso, avrebbero l’onere di ricorrere in via autonoma nel rispetto dei termini decadenziali, laddove, nel secondo caso, assumerebbero la veste di controinteressati.

Ne consegue che, nel caso di un soggetto che intervenga ad adiuvandum pur avendo un interesse diretto identico a quello del ricorrente, la giurisprudenza tradizionale considera l’intervento inammissibile perché elusivo del termine perentorio e quindi decadenziale legislativamente fissato per ricorrere.

La giurisprudenza maggioritaria, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, ritiene che il cointeressato decaduto dall’azione di annullamento, così come non può spiegare intervento litisconsortile, neppure possa fare intervento in forma adesivo-dipendente[13].

Si valorizza, sul punto, l’ampia formulazione dell’art. 28, comma 2, c.p.a., secondo cui può intervenire chiunque non sia parte del giudizio, ma vi abbia interesse, locuzione che ricomprende sia il terzo titolare di un interesse direttamente inciso dall’atto oggetto di impugnazione (e che quindi potrebbe farlo valere autonomamente contro alcune delle parti necessarie), sia colui che è pregiudicato solo in via riflessa dal provvedimento amministrativo.

Per entrambi vale la considerazione secondo cui il codice subordina l’ammissibilità dell’intervento litisconsortile alla condizione che il cointeressato “non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni”, affinché tale intervento non si risolva in un’elusione del termine per impugnare.

Giurisprudenza minoritaria[14], invece, critica lo sbarramento così frapposto all’intervento adesivo-dipendente del cointeressato già decaduto dall’azione di annullamento, sostenendo che tale orientamento perpetuerebbe il fraintendimento intorno alla natura dell’intervento ad adiuvandum, che, limitandosi a sostenere le ragioni del ricorrente senza incidere sul thema decidendum, sarebbe intrinsecamente privo dell’attitudine a eludere il termine di decadenza per l’azione di annullamento.

Si sostiene, cioé, che se l’intervento ad adiuvandum è consentito a chi risente l’efficacia riflessa della sentenza di annullamento, a fortiori lo stesso dovrebbe essere accordato a chi è attinto dalla sua efficacia diretta.

A sostegno di tale assunto, tale indirizzo afferma che la ratio dell’art. 28 del c.p.a., che ammette l’intervento solo da parte di chi non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, non sarebbe quella di sanzionare i comportamenti inerti dei soggetti interessati, bensì quella di assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici e delle situazioni soggettive, evitando che l’azione amministrativa rimanga per troppo tempo controvertibile per via giurisdizionale.

Di conseguenza, una volta che sia validamente instaurato, da uno dei suoi destinatari, un giudizio intorno alla legittimità del provvedimento amministrativo, non vi sarebbe più alcuna ragione, secondo tale ricostruzione, di invocare il termine di decadenza e di precludere l’azione del legittimato che, pur senza ampliare il thema decidendum, voglia solo profittare del processo pendente per sostenere la tesi del ricorrente principale ed ottenere così, indirettamente, data la natura inscindibile degli effetti del provvedimento, la tutela della propria posizione.

L’intervento adesivo-dipendente, in definitiva, sarebbe così denominato non perché chi se ne fa portatore sia titolare di un interesse necessariamente dipendente rispetto a quello azionato in via principale, ma perché tramite questo tipo di intervento non si propongono autonome domande.

2.1. Esame di Cons. Stato, Ad. Plen., 29 ottobre 2024, n. 15

In tale contesto è intervenuto Cons. Stato, Ad. Plen., 29 ottobre 2024, n. 15, aderendo al primo orientamento.

In primo luogo, il Collegio valorizza l’interpretazione letterale: l’art. 28, comma 2, c.p.a. non si limita semplicemente a richiedere che l’intervento del cointeressato sia proposto prima dello spirare del termine di decadenza, bensì che l’interventore “non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni”, il che postula che l’atto di intervento del cointeressato, oltre che tempestivo, contenga la domanda di annullamento.

Sul piano dell’interpretazione sistematica, l’incompatibilità tra l’intervento adesivo-dipendente e la titolarità di un interesse autonomo all’impugnazione discende dalla struttura stessa del giudizio impugnatorio. Il titolare di una posizione di interesse legittimo, infatti, soggiace alle condizioni e ai termini di tutela posti dalla legge tra cui, in primo luogo, l’onere di attivarsi entro il termine di decadenza previsto dalla legge.

Queste conclusioni, osserva la Plenaria, valgono anche per il caso di atto con effetti inscindibili, con effetti erga omnes o comunque plurisoggettivi; infatti, in questi casi, solo gli effetti di annullamento della sentenza sono capaci di operare erga omnes. I vincoli ordinatori e conformativi che esso solitamente comporta, invece, fanno invece stato unicamente inter partes.

In ottica interdisciplinare, si osserva che questo orientamento della giurisprudenza amministrativa sulla non coincidenza tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo è coerente con la teorica degli effetti del giudicato di annullamento della legge. Infatti, quando la Corte costituzionale accoglie la questione sottopostale in via incidentale, la disposizione dichiarata illegittima «cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (ai sensi dell’art. 136 Cost.), travolgendo tutti i rapporti in virtù di essa sorti medio tempore, ad eccezione però dei rapporti esauriti, in cui rientrano anche i rapporti che originano da statuizioni amministrative rimaste inoppugnate.

Se si condividono tali premesse, ne risulta la non condivisibilità della tesi secondo cui, una volta che sia stato validamente instaurato (da uno dei suoi destinatari) un giudizio intorno alla legittimità dell’atto generale, non vi sarebbe più alcuna ragione di invocare l’elusione del termine di decadenza al fine di precludere l’intervento adesivo-dipendente degli altri soggetti incisi.

Infatti, se si ammettesse l’intervento tardivo del cointeressato decaduto, questi, divenuto parte del giudizio, potrebbe azionare gli effetti conformativi del giudicato di annullamento, dal momento che la sua posizione soggettiva sarebbe ricompresa nel giudicato materiale, ma ciò avverrebbe in evidente elusione dei termini decadenziali.

Nel caso di specie, l’atto impugnato, riguardante la definizione dei costi ammissibili e dei criteri per la determinazione delle tariffe a copertura di questi costi, costituisce manifestazione di una funzione di regolazione centralizzata in capo all’Autorità (per l’esigenza di definire un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri omogenei), destinata ad essere recepita a livello locale[15].

Il vincolo conformativo derivante dal giudicato di annullamento dell’atto di regolazione tariffaria, all’esito del giudizio instaurato da un determinato operatore economico, non comporta l’obbligo, per tutte le amministrazioni locali, di revisionare a distanza di anni convenzioni e tariffe praticate da altri gestori che non abbiamo tempestivamente proposto impugnazione. Consentire ai gestori che abbiano prestato acquiescenza di intervenire, a distanza di tempo, nei giudizi proposti da altri avrebbe, quindi, evidenti effetti distorsivi sulla stabilità del sistema regolatorio.

Attraverso tale ragionamento, l’Adunanza Plenaria perviene alla formulazione del seguente principio di diritto: «l’art. 28, comma 2, del codice del processo amministrativo va interpretato nel senso che – nel giudizio proposto da altri avverso un atto generale o ad effetti inscindibili per una pluralità di destinatari – è inammissibile l’intervento adesivo-dipendente del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo».

Ne risulta, dunque, confermata la posizione della giurisprudenza tradizionale.

Con riferimento allo specifico tema dell’intervento degli enti esponenziali, invece, occorre ricordare un’altra recente e fondamentale pronuncia: Cass., Sez. Un., 23 novembre 2023, n. 32559.

Nel caso di specie, le Sezioni Unite, sindacando la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 novembre 2021, n. 18 per «motivi inerenti alla giurisdizione» ai sensi degli artt. 111 Cost. e 110 c.p.a., hanno osservatocome, nel processo amministrativo, la legittimazione ad agire coincida con la titolarità di una posizione qualificabile come interesse legittimo, anche quando si tratti di interessi collettivi di determinate collettività e categorie; pertanto, il giudice amministrativo che si rifiuti di esercitare la propria giurisdizione su tali situazioni giuridiche incorre in diniego o rifiuto della giurisdizione.

Tanto premesso, la Suprema Corte osserva come, nella fattispecie di cui si era occupata l’Adunanza Plenaria, quest’ultima abbia omesso qualsiasi valutazione degli statuti delle associazioni ricorrenti e della Regione Abruzzo; pertanto, l’estromissione non è avvenuta all’esito di una verifica negativa in concreto delle condizioni di ammissibilità dei loro interventi, ma come effetto di un aprioristico diniego di giustiziabilità dell’interesse collettivo proprio delle stesse associazioni ed enti.

Nella misura in cui ha omesso tale valutazione, l’Adunanza Plenaria ha determinato «non un mero e incensurabile error in procedendo ma, al contrario, un diniego in astratto della tutela giurisdizionale connessa al rango dell’interesse sostanziale (legittimo) fatto valere dagli enti ricorrenti, con l’effetto di degradarlo a interesse di mero fatto non giustiziabile».

La censurata sentenza ha, dunque, precluso l’accesso alla giurisdizione delle predette associazioni che avevano fatto valere, in quanto tali, un interesse proprio e diverso da (nonché convergente e quindi adesivo a) quello individuale del destinatario del provvedimento negativo, con il quale le associazioni condividevano l’interesse alla conferma della sentenza di primo grado; da qui, a giudizio della Corte, il collegamento della loro posizione giuridica con quella fatta valere dal concessionario impugnante il provvedimento amministrativo di diniego della proroga.

Ne deriva la configurabilità di un diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale da parte dell’Adunanza Plenaria, con contestuale accoglimento del ricorso formulato dagli enti esponenziali e dalla Regione Abruzzo e affermazione di una concezione ampia dell’intervento nel processo amministrativo, da ritenere esteso anche a enti che facciano valere un interesse diverso da quello proprio del destinatario del provvedimento.

3. Conclusioni

Il – pur sommario – esame della dottrina e della giurisprudenza più recente in tema di intervento nel processo amministrativo rivelano come l’istituto sia contraddistinto da coordinate interpretative, quantomeno con riferimento all’intervento volontario, ben diverse da quelle dell’omologo processualcivilistico.

Emerge, inoltre, una straordinaria vitalità dell’istituto, che lo rende uno degli istituti più problematici – e, al contempo, più affascinanti – del processo amministrativo.


[1] Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Reggio Calabria. Docente di diritto amministrativo presso la SSPL dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria.

[2] V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, III ed., Torino, UTET, 2003, 624.

[3] V. Caianiello, Manuale cit., 624-625.

[4] D. Corletto, La tutela dei terzi nel processo amministrativo, Padova, 1992.

[5] A. Chizzini, L’intervento nella dinamica del processo amministrativo. Profili generali, in M. Ramajoli – R. Villata (a cura di), L’intervento nel processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2023, 4.

[6] Carnelutti affermava autorevolmente che la teoria degli interventi non è altro che un aspetto particolare della più complessa teoria dell’azione e dell’oggetto del processo (F. Carnelutti, Recensione a Nencioni, in Riv. Dir. Proc. civ., 1935, 190.

[7] E. Cannada Bartoli, In tema di intervento dinanzi al Consiglio di Stato relativamente a questioni paritetiche, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1951, III, 1226; A. Romano, In tema di intervento nel processo amministrativo, in Foro amm., 1961, I, 1247; M. Nigro, L’intervento volontario nel processo amministrativo, in Atti del IX Convegno di Varenna sui problemi del processo amministrativo, Milano, Giuffré, 1964; A. Tigano, Considerazioni critiche in tema di intervento nel processo amministrativo, in Riv. trim. dir. pubb., 1972, 1988; A. Romano, L’intervento iussu iudicis nel processo amministrativo, in Giur. merito, 1977, III, 940; A. Tigano, L’intervento nel processo amministrativo. Profili sistematici, Milano, Giuffré, 1984; F. Lubrano, L’intervento nel processo amministrativo, Roma, Istituto editoriale Regioni italiane, 1988; M. D’Orsogna, Intervento e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1995, 475; E. Picozza, Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, CEDAM, 2003; Id., Il processo amministrativo, Milano, Giuffré, 2008; M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381.

[8] E non la chiamata del terzo per ordine del giudice o su istanza di parte.

[9] Cfr. Cons. Stato, Ad Plen., 25 maggio 1954, n. 18; 31 gennaio 1961, n. 1. Con riferimento alle Sezioni semplici, Cons. Stato, Sez. IV, 15 aprile 1932, n. 143; Sez. IV, 8 ottobre 1941, n. 320; Sez. V, 15 dicembre 1942, n. 676; Sez. IV, 27 luglio 1946, n. 256; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. V, 22 dicembre 1948, n. 386; Sez. IV, 29 dicembre 1948, n. 524; Sez. VI, 2 maggio 1949, n. 30; Sez. VI, 3 ottobre 1949, n. 120; Sez. IV, 10 ottobre 1950, n. 464; Sez. VI, 3 dicembre 1950, n. 592; Sez. VI, 4 dicembre 1950, n. 595; Sez. IV, 4 aprile 1951, n. 203; Sez. IV, 18 luglio 1951, n. 507; Sez. VI, 27 agosto 1951, n. 632; Sez. VI, 27 settembre 1951, n. 633; Sez. IV, 28 novembre 1951, n. 927; Sez. VI, 27 agosto 1952, n. 632; Sez. IV, 23 dicembre 1952, n. 1030; Sez. VI, 14 aprile 1954, n. 233; Sez. IV, 28 agosto 1954, n. 494; Sez. VI, 6 novembre 1957, n. 810; Sez. IV, 15 novembre 1961, n. 585; Sez. V, 12 gennaio 1963, n. 4; Sez. V, 25 settembre 1963, n. 802.

[10] Si pensi al caso del terzo che intervenga in un processo in cui il ricorrente impugna un decreto di esproprio, sostenendo di essere il proprietario dell’immobile e contestando, a sua volta, l’operato dell’Amministrazione.

[11] Cons. Stato, Sez. IV, 14 luglio 1978, n. 970; Cons. Stato, Sez. V, 18 gennaio 1980, n. 38; Cons. Stato, Sez. V, 30 giugno 1984, n. 534.

[12] Cons. Stato, Ad. Plen., 25 maggio 1954, n. 18, cit.; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. IV, 3 febbraio 1956, n. 76; Sez., V, 28 settembre 1970, n. 713; Sez. IV, 12 dicembre 1996, n. 1292; Sez., IV, 13 dicembre 1999, n. 1853; Sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2928.

[13] Cons. Stato, Sez. III, 4 aprile 2023, n. 3442; Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 105; Sez. VI, 13 agosto 2018, n. 4939; Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2186.

[14] Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882; Sez. V, 30 ottobre 2017, n. 4973.

[15] La tariffa base viene predisposta dai diversi enti di governo dell’ambito, nell’osservanza del metodo tariffario regolato dall’Autorità.

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