di Valentino De Nardo, già Presidente di Sezione della Corte di Cassazione
Il diritto al lavoro e il diritto alla pensione sono due diritti collegati, entrambi nascenti dal contratto di lavoro, soltanto che il primo è un diritto soggettivo attuale, mentre il secondo è un’aspettativa giuridica, ossia un diritto soggettivo futuro, ma collegato al primo, perché il soggetto che fa una scelta di lavoro deve potere anche programmare il futuro connesso e conseguente a tale scelta, per cui anche le aspettative giuridiche sono dei diritti acquisiti, che prima hanno una tutela solo preventiva, ma che poi diviene definitiva con la nascita del diritto attuale alla pensione.
Pertanto, il diritto al lavoro comprende, oltre alle condizioni normative e retributive del rapporto di lavoro, anche le condizioni previdenziali di contribuzione pensionistica e di età pensionabile per la pensione anticipata e quella di vecchiaia, che, pur essendo norme di diritto pubblico diventano private quando entrano a far parte del singolo rapporto di diritto privato per il principio di irretroattività della legge, che vale ormai per dottrina prevalente e giurisprudenza costante, non solo per le norme penali, ma anche per le altre norme sanzionatorie amministrative e comunque restrittive dei diritti acquisiti, comprensive nella fattispecie in esame anche della rivalutazione monetaria, perché il lavoro è una merce e quindi la pensione, quale retribuzione differita, rappresenta un debito di valore per lo Stato, che gestisce attraverso l’INPS le pensioni pubbliche ed equiparate.
Il diritto alla pensione sorge al momento del verificarsi delle condizioni di legge per la pensione anticipata o di quella di vecchiaia, stabilite al momento dell’assunzione del rapporto di lavoro, in base alla scelta successiva dell’avente diritto.
Quindi, il diritto di lavoro si trasforma nel diritto alla pensione ( la dottrina e giurisprudenza prevalente parla infatti della pensione come retribuzione differita), al verificarsi delle predette condizioni pattuite al momento del contratto di lavoro.
Infatti – come dianzi si è detto -, le suddette condizioni, pur essendo stabilite da norme di diritto pubblico nell’interesse pubblico generale, si individualizzano e contrattualizzano, allorchè entrano nel contratto con il singolo lavoratore, per questo l’accordo è il fondamento e la forma generale dello Stato di diritto e democratico, cioè, pur essendo norme di diritto pubblico, esse si stabilizzano e si contrattualizzano nel singolo rapporto di diritto privato, per il principio dell’irretroattività della legge, che garantisce la certezza, la stabilità e la democraticità dell’intero ordinamento giuridico.
L’errore di fondo della teoria del fatto compiuto è stata, a mio avviso, quella di concepire i diritti soggettivi come una “consecutio” di singoli diritti di esercizio del medesimo diritto, fra loro indipendenti ( come fatti compiuti a sé stanti), a seconda del rapporto giuridico, in cui si esplicano e, quindi, sacrificabili o modificabili, se in contrasto con l’interesse pubblico, espresso da norme successive, con il quale entrano in contatto nel relativo rapporto giuridico. Pertanto, tale dottrina, da un lato, distingue fra diritti soggettivi perfetti e diritti soggettivi affievoliti o in via di affievolimento, e dall’altro non distingue nettamente l’aspettativa giuridica, che è un diritto soggettivo futuro, in via di formazione progressiva ( diritto soggettivo in itinere, secondo la mia definizione), e la semplice aspettativa di fatto, che non ha alla sua base, come la prima, un diritto in via di formazione, arrivando persino a non riconoscere la stessa natura giuridica della figura fondamentale del diritto soggettivo, quale semplice posizione giuridica soggettiva, riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico in capo al suo titolare , sia in via preventiva e conservativa ( “l’aspettativa giuridica”, quale diritto soggettivo futuro in via di formazione) o in via definitiva dal medesimo ordinamento giuridico ( “il diritto soggettivo”, quale diritto soggettivo attuale e definitivo).
In realtà, quindi, sia il diritto soggettivo che l’aspettativa giuridica fanno entrambi parte della categoria dei diritti soggettivi, innati o acquisiti, soltanto che il primo è un diritto soggettivo attuale, mentre la seconda è un diritto soggettivo futuro in via di formazione, ma del pari attualmente riconosciuto e tutelato nei termini previsti dalla legge.
Infatti, entrambi hanno una loro tutela giuridica immediata e specifica, oltre che collegata, fissata dalla legge ordinaria o costituzionale[1].
Nel mio ultimo libro, intitolato “Democrazia Universale”, edito dalla CEDAM nel 2022, ho potuto concludere che il modello di Stato democratico, per realizzare una democrazia compiuta, e non restare sempre in una visione autoritaria e statalista dell’ordinamento ( c.d. autocrazia), non si deve fondare solo sulla rappresentanza popolare, attraverso elezioni a suffragio universale, sulla separazione dei poteri, e sul principio maggioritario dei suoi organi istituzionali di natura collegiale o collettiva, necessario per la nascita ed il funzionamento di ogni nuovo soggetto giuridico democratico, ma anche sul riconoscimento dei diritti innati o acquisiti ( diritti soggettivi e aspettative giuridiche) di tutti i soggetti di diritto dell’unitario ordinamento giuridico.
Infatti la sovranità appartiene al popolo, non solo considerato nella totalità dei suoi componenti, ma anche nei singoli soggetti, che ne fanno parte, i quali sono sovrani nelle rispettive sfere giuridiche nel quadro delle norme costituzionali, che li tutelano, non solo nei rapporti privatistici fra di loro, ma anche e, soprattutto, nei confronti dei pubblici poteri, per evitare la c.d. “tirannia o dittatura della maggioranza”, considerati i poteri di supremazia, di cui essi dispongono, ma pur sempre nei limiti previsti dalla Costituzione nelle varie materie. In tal modo, infatti, vengono tutelati tutti i singoli cittadini dai mutamenti dei Governi e, quindi, anche quelli espressi dalle minoranze parlamentari.
Non bisogna dimenticare, come si può facilmente notare dall’esame degli ordinamenti di diversi Stati, anche europei, che il passaggio dalle democrazie agli Stati autoritari, c.d. autocrazie, pur in presenza di diritto di voto popolare, il passo è breve.
Inserendosi nel più generale contesto dell’efficacia della legge nel tempo e della successione delle norme, i diritti acquisiti rispondono principalmente ad un’esigenza di certezza del diritto, elemento fondante dello Stato di diritto e democratico.
Invero, essi, come i giudicati delle sentenze, sia civili che penali, costituiscono la massima espressione dello Stato di diritto e democratico, mettendo al riparo i cittadini dagli atti arbitrari dei pubblici poteri, che, altrimenti, degenererebbero in regimi autoritari e dittatoriali.
In caso contrario non si realizza una democrazia compiuta, in quanto i cittadini saranno equiparati a dei sudditi di uno Stato autoritario e dittatoriale, in cui i loro diritti saranno sempre in balia delle nuove maggioranze parlamentari e dei Governi, che di volta in volta le esprimono, vanificando il supremo principio della certezza del diritto e del principio che la legge ( ed, in primis, la legge suprema della Costituzione democratica) è uguale per tutti, ivi compreso lo Stato.
Pertanto, è un principio fondamentale dello Stato di diritto e dello Stato democratico quello del rispetto dei diritti acquisiti, ossia di quei poteri sorti da un fatto acquisitivo valido per la legge precedente, fatto che la nuova legge non può qualificare in modo difforme dal passato, per farne derivare effetti giuridici diversi[2].
Tali diritti derivano, in primis, dal principio di irretroattività della legge (art. 11 delle preleggi), che stabilisce che la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, in quanto la norma giuridica contiene un comando, che, per essere osservato, necessita almeno della possibilità di essere conosciuto in precedenza: tale principio ha valore costituzionale, non solo per le leggi penali (art. 25 Cost.), ma, in via di interpretazione analogica, per autorevole dottrina[3] e prevalente giurisprudenza, per tutte le leggi afflittive, anche se non sanzionatorie di reati, e restrittive dei diritti quesiti, ossia di quei poteri sorti da un fatto acquisitivo valido per la legge precedente, ormai entrati a far parte definitivamente della sfera giuridica dei soggetti titolari.
Infatti, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, la materia dei diritti quesiti è stata oggetto di una specifica raccomandazione della loro osservanza da parte del legislatore.
I Padri Costituenti, tuttavia, pur raccomandando ai futuri governanti il rispetto dei “diritti quesiti”, non li hanno stigmatizzati in una precisa definizione nel testo costituzionale, nella eccessiva preoccupazione di parte di essi che potesse vincolare i pubblici poteri nel perseguimento dell’interesse pubblico. Ma, poi, già agli albori della nuova repubblica democratica, l’Illustre costituente, Piero Calamandrei stigmatizzava, “Chiamare i deputati e i senatori “rappresentanti del popolo” non vuol più dire oggi quello che voleva dire in altri tempi: si dovrebbero chiamare piuttosto “impiegati del loro partito”.
Ne è derivata, infatti, una continua prevaricazione delle posizioni giuridiche soggettive dei singoli cittadini da parte dei Governi e delle maggioranze parlamentari nel perseguimento dei loro interessi partitici, sia di destra che di sinistra, in ossequio alla superata teoria della Sovranità dello Stato, anziché del popolo, affermatasi con il contemporaneo Stato democratico, delineato dalla Costituzione, che si inquadra in una visione contrattualistica e pattizia del diritto e non statuale ed autoritaria dell’ unitario ordinamento giuridico.
La mia teoria dell’accordo, derivante dal rapporto giuridico, libero, paritario e solidaristico nell’ambito nell’unitario ordinamento giuridico, interno od internazionale, dà forma giuridica al principio della sovranità popolare, che trova la sua massima espressione nella legge e, quindi, nel principio di legalità, che deve ispirare tutto l’ordinamento, essendo anche le potestà pubbliche, solo poteri strumentali, rappresentativi di diritti generali del popolo, secondo la teoria della Sovranità del popolo, anziché dello Stato, propria dell’attuale Stato di diritto e democratico.
Pertanto, è un principio fondamentale dello Stato di diritto e dello Stato democratico quello del rispetto dei diritti acquisiti, ossia di quei poteri sorti da un fatto acquisitivo valido per la legge precedente, fatto che la nuova legge non può qualificare in modo difforme dal passato, per farne derivare effetti giuridici diversi[4].
Inoltre, mi preme sottolineare che è errato, a mio avviso, distinguere i diritti soggettivi in fondamentali o meno e, quindi, inviolabili nel primo caso e degradabili o sacrificabili nel secondo, come è errato classificarli in diritti soggettivi perfetti o meno (in quanto, tutto è relativo nella realtà umana, secondo la famosa teoria della relatività di Einstein), poiché la sfera giuridica di ognuno ( come la sfera nella geometria che esprime la perfezione del cerchio) ed ogni situazione giuridica soggettiva con essa coincidente deve essere rispettata da chiunque, compreso lo Stato, in un regime democratico, in base alle norme che la disciplinano e la proteggono, a prescindere se trattasi di diritto pieno od anche in via di formazione ovvero di aspettativa giuridica.
Pertanto, perfetta è la sfera giuridica di ciascuno, protetta dall’ordinamento giuridico, secondo un concetto relativo di perfezione, riferito alla protezione concessa dall’ordinamento giuridico, che di solito è in natura, ma talvolta solo corrispondente all’equivalente valore economico del bene giuridico protetto. Infatti, anche i diritti patrimoniali dei privati, quando vengano inesorabilmente in conflitto con i diritti generali di tutti i cittadini, rappresentati dallo Stato, debbono essere ricompensati con il loro equivalente valore economico, come ormai pacificamente riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Quindi, il concetto di perfezione della tutela della sfera giuridica di ogni individuo è sempre assoluto, pur nelle diverse forme relative, che la realtà storica, di volta in volta può presentare.
Non esiste, infatti, una legge perfetta, perché la legge umana non è una legge matematica, ma esiste, invece, una legge umana più perfetta di altre, perché conforme, in modo ottimale, ai valori e principi fondamentali costituzionali, ed è, quindi, una legge umana perfetta.
Una teoria generale del diritto completa deve armonizzare il diritto oggettivo con i diritti soggettivi. Non a caso il primo è singolare ed unitario, mentre i secondi sono plurali, in quanto il diritto oggettivo è costituito per regolare i diritti soggettivi di tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, i quali debbono essere intesi, non solo come generalità di soggetti- ossia diritti generali di tutta la collettività o di parte di essa-, ma anche come diritti di singoli soggetti o di categorie di soggetti determinati, sia in senso temporale, che spaziale.
Ciò premesso, il diritto oggettivo deve rispettare i diritti innati o acquisiti e, cioè,i diritti soggettivi o le aspettative giuridiche relativi a soggetti determinati ( diritti di singoli individui e diritti collettivi di categorie di soggetti). Al contrario, può regolare diversamente diritti soggettivi appartenenti ad una generalità di soggetti ( c.d. diritti soggettivi generali, di cui lo Stato ne ha la rappresentanza necessaria) e, quindi, indeterminati e sempre mutevoli. Questa impostazione generale di ogni sistema giuridico si rende necessario per il rispetto del principio dell’irretroattività della legge, sul quale si basa il principio fondamentale della certezza del diritto.
Inoltre, la Costituzione, che è la legge suprema di ogni ordinamento democratico, come quello italiano, non contiene una graduatoria dei diritti soggettivi individuali o collettivi, che, quindi, devono considerarsi tutti uguali.
Per questo stesso motivo, non si può creare un nuovo diritto soggettivo individuale (o collettivo) a discapito di un altro ( ad es., il diritto all’aborto, al posto del diritto alla vita, che – come è noto- inizia dal concepimento).
Tuttavia, anche nell’attività più strettamente pubblicistica (legislativa o amministrativa), destinata a tutelare interessi generali della collettività, possono incontrarsi diritti soggettivi di singoli soggetti determinati, operanti nel medesimo settore pubblico ed anche in tal caso, quindi, tali situazioni soggettive ( diritti soggettivi o aspettative giuridiche) non possono essere sacrificate dalle attività, sia legislative, che amministrative.
Peraltro, allorchè lo Stato si occupa di interessi generali, in rappresentanza dei diritti generali di tutti i cittadini, fermo restando la libertà del potere legislativo nella scelta dei fini da perseguire ( ossia nel merito politico dell’interesse privilegiato) , le scelte effettuate debbono essere sindacate dalla Corte Costituzionale sulla base del principio della ragionevolezza, derivante dal principio generale di uguaglianza, ossia di non discriminazione fra categorie uguali o di arbitrari livellamenti fra categorie differenti, e della congruità e della coerenza della decisione adottata per l’interesse pubblico, liberamente prescelto, nonché del giusto bilanciamento effettuato fra gli interessi pubblici coinvolti nell’ambito del sistema normativo vigente, ma non deve interferire nel merito delle scelte politiche del legislatore su un piano preventivo generale.
Da quanto detto, emerge che non possono essere eliminati o modificati diritti soggettivi o le aspettative giuridiche ( individuali o collettivi), innati in base alla carta costituzionale od altro ordinamento sovranazionale o internazionale o successivamente acquisiti in base ai singoli accordi individuali o collettivi.
In sede di Assemblea Costituente, l’orientamento prevalente era quello di equiparare la giurisdizione di costituzionalità alla giurisdizione amministrativa ( G. Codacci Pisanelli)[5], preferendo una visione dell’ordinamento antropocentrica, finalizzata alla tutela effettiva dei cittadini, a quella statocentrica, indirizzata alla tutela della legalità costituzionale in senso oggettivo ( tutela della legalità dell’ordinamento nel suo complesso). Di qui, la potenziale equiparazione dei vizi tipici degli atti di parte sottoposti, rispettivamente, al giudice amministrativo o alla Corte Costituzionale. Quindi anche per il legislatore poteva parlarsi di vizio di eccesso di potere nell’esercizio della sua attività discrezionale, motivato in ragione di uno scostamento da un fine predeterminato, cui la legge avrebbe dovuto necessariamente attenersi.
Secondo questa impostazione dottrinaria, il vizio di eccesso di potere integra una nozione della discrezionalità di tipo amministrativistico, come sorpassamento dei limiti posti all’esercizio del potere normativo del Parlamento. L’eccesso di potere, quindi, viene rappresentato come un vizio della causa, ossia come sviamento di potere, che si ha quando l’interesse perseguito dalla legge contrasti con quello imposto dalla Costituzione o quando dalla legge emerga un’assoluta incongruenza tra la norma dettata ed il fine di pubblico interesse, che doveva perseguire.
Pertanto, l’attività legislativa non è libera nei fini da perseguire in senso assoluto, costituendo piuttosto uno sviluppo o uno svolgimento della Costituzione, alla cui realizzazione deve conseguentemente ritenersi vincolata, anche a prescindere dalle finalità ad essa specificamente assegnate da puntuali, singole disposizioni. Al riguardo, infatti, una autorevole dottrina [6]concepisce la Costituzione come una tavola di valori in sé compiuta (dotata di un immanente finalismo), unitariamente considerati, capace di porre vincoli oggettivamente conoscibili, anche all’attività legislativa. Pertanto, la discrezionalità legislativa esprime un limite funzionale di natura prevalentemente interna alla stessa attività di produzione normativa, nel caso in cui l’atto legislativo risulti vincolato al perseguimento di determinati fini pubblici.
In conclusione, le maggioranze parlamentari possono soltanto creare nuovi diritti soggettivi( individuali o collettivi) o nuove aspettative giuridiche, senza peraltro sacrificarne altri già acquisiti, o regolamentare diversamente i diritti generali di tutti i cittadini o di tutti i soggetti dell’ordinamento, di cui lo Stato – come già detto- ne ha soltanto la rappresentanza necessaria, secondo le sue scelte politiche in merito agli interessi generali rappresentati, purchè comunque vengano rispettati i principi e i precetti costituzionali degli interessi generali coinvolti nella loro azione di bilanciamento e, quindi, innanzitutto, il principio generale di ragionevolezza, conseguente al principio di uguaglianza ( art 3 Cost.), ed i collegati principi di adeguatezza, coerenza,proporzionalità e congruità, volti ad impedire scelte arbitrarie e l’eventuale discrasia fra i fini perseguiti ed i mezzi impiegati nell’esercizio del potere discrezionale del Parlamento, trattandosi di rappresentanza di diritti generali di tutti i cittadini o soggetti di diritto dell’ordinamento giuridico.
Proprio in base alla teoria dell’accordo si spiega il significato ed il valore di una Costituzione democratica. Infatti, la Costituzione è frutto di un accordo più generale dell’Assemblea costituente, in rappresentanza del popolo, che tiene insieme tutte le norme dell’ordinamento, formate da accordi successivi ( leggi e contratti) nel quadro di una concatenazione verticale di accordi,che dà luogo alla Democrazia Sociale Costituzionale.
[1] Sotto il profilo oggettivo, l’aspettativa dà vita ad una serie di elementi, che si susseguono cronologicamente. Si fa riferimento, a tal proposito, al concetto di fattispecie a formazione progressiva, nella quale, cioè, il risultato – diritto soggettivo completo – viene ottenuto gradualmente. In questo senso, l’aspettativa configura un effetto preliminare: Cfr. Levi A. , Teoria generale del diritto, Padova, Cedam,1950, p. 414; Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 1985, p. 66. Essa non è irrilevante per l’ordinamento. La legge concede la possibilità di tutelare tale situazione giuridica soggettiva per il tramite di atti aventi natura conservativa o cautelare, in attesa e nella previsione della nascita del diritto soggettivo. Ciò fino a giungere al punto di ritenere legalmente verificata la condizione: si pensi alla c.d. finzione di avveramento, di cui all’art. 1359 codice civile.
[2] v. C. Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, Tomo I, Parte III, Sez. II, Padova, Cedam, 1969, p. 345; e G. Codacci Pisanelli, Diritti Quesiti, Parte I, Laterza, Bari 1976, p. 9.
[3] v. C. Mortati, cit.; e G. Guarino, Leggi di incentivazione ecc., in Scritti di diritto dell’economia.
[4] v. C. Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, Tomo I, Parte III, Sez. II, Padova, Cedam, 1969, p. 345; e G. Codacci Pisanelli, Diritti Quesiti, Parte I, Laterza, Bari 1976, p. 9.
[5] v. in proposito l’intervento dell’on.G. Codacci Pisanelli, Atti Assemblea Costituente n. 4215, in www.cameradeideputati.it
[6] v.C. Mortati, Costituzione (dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, vol.XI, Milano, 1962, p. 139 ss.

